non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
Steerpike ha scritto:Invece sì, visto che cambia di società in società.
Non escluderei che uno o più individui nel mondo gradiscano la cosa (una subcultura che per qualche motivo esalti la stupidità e/o la sottostima).
Il concetto di rispetto cambia di società in società???? Forse su Marte
Non escludi che esistano delle subculture? Ma non puoi nemmeno confermarlo. Come fai a dire che esistono delle subculture? Anche esistessero, chi te l'ha detto che non si offenderebbero sentendosi dare dei cretini?
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
Hiii Pista ..... ma sei parente di Jessica ?
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
Sarai mica intuizionista? Le doppie negazioni si annullano.pistacchio ha scritto:
Tu stai dicendo:" fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te", il mio invece è proprio l'opposto
Mettiamo il caso che C, cameriere presso un lussiossimo ristorante francese, contragga una rara forma di allergia alla crème caramel. Può annusarla, ma non può ingerirla senza rischiare di finire in terapia intensiva. Poniamo ora che il critico gastronomico D, per decidere se assegnare o meno il prestigioso riconoscimento della "stella a pois" al ristorante, ordini a C proprio un piatto a base di crème caramel. C non dovrebbe servirglielo?
Sulla Terra sicuramente.pistacchio ha scritto:
Il concetto di rispetto cambia di società in società???? Forse su Marte
Vedi qui, per esempio.pistacchio ha scritto:
Come fai a dire che esistono delle subculture?
Non ho dati per questa particolare azione (dare del cretino), ma per confutare un'affermazione universale basta trovare un singolo controesempio. Eccone un altro: in una calda giornata d'agosto, E ed F stanno scalando la parete nord del Massiccio del Pinzillachio Fiutatore. Ad un certo punto, il costone roccioso su cui cammina E inizia a sbriciolarsi, esponendo lo stesso al rischio di un volo di 1800 [m]. Fortunatamente i due, conoscendo di fama la terribile pelite della zona, si erano legati con una corda. Chiaramente F non vuole assolutamente che E svolga l'azione "tirare la corda verso di me" nei suoi confronti, perché porterebbe il peso di entrambi sull'area friabile portando alla sua rottura e conseguente caduta libera. Se però F non svolge lui stesso l'azione "tirare la corda verso di me" nei confronti di E, dopo un po' di tempo si ripeterà lo stesso scenario sopra paventato. Cosa dovrebbe fare, secondo te?pistacchio ha scritto:Non escludi che esistano delle subculture? Ma non puoi nemmeno confermarlo. [...] Anche esistessero, chi te l'ha detto che non si offenderebbero sentendosi dare dei cretini?
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
pistacchio ha scritto:Considerando che siamo sul pianeta terra e che non viviamo nell'era della pietra, penso che non serva spiegare il concetto di rispetto.
Oltretutto l'ho già descritto e fatto degli esempi più e più volte nei post precedenti. Mi trovo molto in linea con il pensiero di klaus, che essendo più bravo di me con le parole, ha espresso in maniera molto elementare il concetto.
Faccio un esempio concreto e crudo: oggi mi sono svegliata con la voglia di dare dei cretini a tutti, te compreso, conosco tutte le lingue del mondo e all'unanimità faccio sapere a tutti che sono degli emeriti cretini, se non peggio.
Secondo te cosa sto facendo?
Secondo me stai ragionando col culo.
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
Sì! È sua cugggina!Paolo ha scritto:Hiii Pista ..... ma sei parente di Jessica ?
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
Steerpike ha scritto:Sarai mica intuizionista? Le doppie negazioni si annullano.pistacchio ha scritto:
Tu stai dicendo:" fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te", il mio invece è proprio l'opposto
Mettiamo il caso che C, cameriere presso un lussiossimo ristorante francese, contragga una rara forma di allergia alla crème caramel. Può annusarla, ma non può ingerirla senza rischiare di finire in terapia intensiva. Poniamo ora che il critico gastronomico D, per decidere se assegnare o meno il prestigioso riconoscimento della "stella a pois" al ristorante, ordini a C proprio un piatto a base di crème caramel. C non dovrebbe servirglielo?Sulla Terra sicuramente.pistacchio ha scritto:
Il concetto di rispetto cambia di società in società???? Forse su MarteVedi qui, per esempio.pistacchio ha scritto:
Come fai a dire che esistono delle subculture?Non ho dati per questa particolare azione (dare del cretino), ma per confutare un'affermazione universale basta trovare un singolo controesempio. Eccone un altro: in una calda giornata d'agosto, E ed F stanno scalando la parete nord del Massiccio del Pinzillachio Fiutatore. Ad un certo punto, il costone roccioso su cui cammina E inizia a sbriciolarsi, esponendo lo stesso al rischio di un volo di 1800 [m]. Fortunatamente i due, conoscendo di fama la terribile pelite della zona, si erano legati con una corda. Chiaramente F non vuole assolutamente che E svolga l'azione "tirare la corda verso di me" nei suoi confronti, perché porterebbe il peso di entrambi sull'area friabile portando alla sua rottura e conseguente caduta libera. Se però F non svolge lui stesso l'azione "tirare la corda verso di me" nei confronti di E, dopo un po' di tempo si ripeterà lo stesso scenario sopra paventato. Cosa dovrebbe fare, secondo te?pistacchio ha scritto:Non escludi che esistano delle subculture? Ma non puoi nemmeno confermarlo. [...] Anche esistessero, chi te l'ha detto che non si offenderebbero sentendosi dare dei cretini?
...sentiamo la replica...
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
povera pistacchia alla fine non ha tutti i torti;è vero che in alcune situazioni la frase "non fare agli altri quello che non vorresti essere fatto a te" risulta non funzionante,però come modo di fare non è sbagliato,si tratta solo di evitare determinati comportamenti che potrebbero dare fastidio ad un altra persona tutto qui
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
si ho già avvertito*Valerio* ha scritto:Qualche problema col nuovo browser?
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
*Valerio* ha scritto:Steerpike ha scritto:Sarai mica intuizionista? Le doppie negazioni si annullano.pistacchio ha scritto:
Tu stai dicendo:" fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te", il mio invece è proprio l'opposto
Mettiamo il caso che C, cameriere presso un lussiossimo ristorante francese, contragga una rara forma di allergia alla crème caramel. Può annusarla, ma non può ingerirla senza rischiare di finire in terapia intensiva. Poniamo ora che il critico gastronomico D, per decidere se assegnare o meno il prestigioso riconoscimento della "stella a pois" al ristorante, ordini a C proprio un piatto a base di crème caramel. C non dovrebbe servirglielo?Sulla Terra sicuramente.pistacchio ha scritto:
Il concetto di rispetto cambia di società in società???? Forse su MarteVedi qui, per esempio.pistacchio ha scritto:
Come fai a dire che esistono delle subculture?Non ho dati per questa particolare azione (dare del cretino), ma per confutare un'affermazione universale basta trovare un singolo controesempio. Eccone un altro: in una calda giornata d'agosto, E ed F stanno scalando la parete nord del Massiccio del Pinzillachio Fiutatore. Ad un certo punto, il costone roccioso su cui cammina E inizia a sbriciolarsi, esponendo lo stesso al rischio di un volo di 1800 [m]. Fortunatamente i due, conoscendo di fama la terribile pelite della zona, si erano legati con una corda. Chiaramente F non vuole assolutamente che E svolga l'azione "tirare la corda verso di me" nei suoi confronti, perché porterebbe il peso di entrambi sull'area friabile portando alla sua rottura e conseguente caduta libera. Se però F non svolge lui stesso l'azione "tirare la corda verso di me" nei confronti di E, dopo un po' di tempo si ripeterà lo stesso scenario sopra paventato. Cosa dovrebbe fare, secondo te?pistacchio ha scritto:Non escludi che esistano delle subculture? Ma non puoi nemmeno confermarlo. [...] Anche esistessero, chi te l'ha detto che non si offenderebbero sentendosi dare dei cretini?
...sentiamo la replica...
Ho capito mi volete fare pelo e contropelo.
Dell'ultimo esempio che hai scritto non ho capito proprio nulla, è troppo complicato
vediamo questo: Mettiamo il caso che C, cameriere presso un lussiossimo ristorante francese, contragga una rara forma di allergia alla crème caramel. Può annusarla, ma non può ingerirla senza rischiare di finire in terapia intensiva. Poniamo ora che il critico gastronomico D, per decidere se assegnare o meno il prestigioso riconoscimento della "stella a pois" al ristorante, ordini a C proprio un piatto a base di crème caramel. C non dovrebbe servirglielo?
Tu l'hai detto che è una forma rara... ergo ti sei risposto da solo.
Allora il singolo esempio confutatore te lo trovo io: il mio gatto cambia espressione quando tento anche solo di offenderlo. Se lo capisce un animale figurati se non lo capisce un essere umano qualsiasi.
Poi mi arrendo perchè m'avete proprio scassato.
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
iosonoateo ha scritto:povera pistacchia alla fine non ha tutti i torti;è vero che in alcune situazioni la frase "non fare agli altri quello che non vorresti essere fatto a te" risulta non funzionante,però come modo di fare non è sbagliato,si tratta solo di evitare determinati comportamenti che potrebbero dare fastidio ad un altra persona tutto qui
grazie!
posso capire anche il loro punto di vista.... sai si sentono provocati dalla "pivellina saccente" appena arrivata nel forum... e vogliono fare di tutto per screditarmi
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
pistacchio ha scritto:iosonoateo ha scritto:povera pistacchia alla fine non ha tutti i torti;è vero che in alcune situazioni la frase "non fare agli altri quello che non vorresti essere fatto a te" risulta non funzionante,però come modo di fare non è sbagliato,si tratta solo di evitare determinati comportamenti che potrebbero dare fastidio ad un altra persona tutto qui
grazie!
posso capire anche il loro punto di vista.... sai si sentono provocati dalla "pivellina saccente" appena arrivata nel forum... e vogliono fare di tutto per screditarmi
Ehhi pivellina!! Il problema è che "normalmente" la morale atea è tale per cui tu una cosa la fai, o comunque non la fai, non perché c'è una qualche regola, più o meno divina, che ti dice cosa devi fare e come! E per di più con il sistema del bastone e la carota! Tu fai/non fai qualcosa perché hai raggiunto una maturità socio culturale tale da capire cosa sia meglio per te e per gli altri.
Perciò l'ateo culturalmente maturo (si fa per dire!) non accetta indicazioni o costrizioni morali come quelle che tu hai indicato. E questo anche perché l'ateo è tendenzialmente razionale e sa che non ci può essere una regola universale che vale per tutte le stagioni e per tutti i casi! L'unica "regola" è la maturità culturale e sociale che ti rende capace di valutare e capire volta volta cosa si bene e cosa sia giusto fare! Le regole così fatte in campo morale o etico non hanno senso di esistere.
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La questione se "Il mondo sia stato creato da Dio, il quale è sempre esistito" si semplifica in "Il mondo è sempre esistito". E' superfluo, e quindi, secondo il rasoio di Occam, sbagliato in senso metodologico, introdurre Dio per spiegare l'esistenza del mondo.
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
[quote="Steerpike"]Sarai mica intuizionista? Le doppie negazioni si annullano.
quote]
Le doppie negazioni si annullano, ma vedo che pure l'uso del cervello si annulla.
Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te= azione volontaria
non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te= assenza di azione
E si sono proprio la stessa identica cosa!!!
quote]
Le doppie negazioni si annullano, ma vedo che pure l'uso del cervello si annulla.
Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te= azione volontaria
non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te= assenza di azione
E si sono proprio la stessa identica cosa!!!
Ultima modifica di pistacchio il Ven 9 Nov 2012 - 10:09 - modificato 1 volta.
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
Paolo ha scritto:pistacchio ha scritto:iosonoateo ha scritto:povera pistacchia alla fine non ha tutti i torti;è vero che in alcune situazioni la frase "non fare agli altri quello che non vorresti essere fatto a te" risulta non funzionante,però come modo di fare non è sbagliato,si tratta solo di evitare determinati comportamenti che potrebbero dare fastidio ad un altra persona tutto qui
grazie!
posso capire anche il loro punto di vista.... sai si sentono provocati dalla "pivellina saccente" appena arrivata nel forum... e vogliono fare di tutto per screditarmi
Ehhi pivellina!! Il problema è che "normalmente" la morale atea è tale per cui tu una cosa la fai, o comunque non la fai, non perché c'è una qualche regola, più o meno divina, che ti dice cosa devi fare e come! E per di più con il sistema del bastone e la carota! Tu fai/non fai qualcosa perché hai raggiunto una maturità socio culturale tale da capire cosa sia meglio per te e per gli altri.
Perciò l'ateo culturalmente maturo (si fa per dire!) non accetta indicazioni o costrizioni morali come quelle che tu hai indicato. E questo anche perché l'ateo è tendenzialmente razionale e sa che non ci può essere una regola universale che vale per tutte le stagioni e per tutti i casi! L'unica "regola" è la maturità culturale e sociale che ti rende capace di valutare e capire volta volta cosa si bene e cosa sia giusto fare! Le regole così fatte in campo morale o etico non hanno senso di esistere.
E quale regola o costrizione avrei dato scusa? Ma ti pare? A me pare una mania di persecuzione. Leggi bene da dove è partito il tutto e ti renderai conto che siete stati voi a farne un caso di stato
Anche andare a cercare il pelo nell'uovo in ogni dove non mi pare da "ateo maturo".
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
Dipende dai punti di vista. Qui non si tratta di cercare il pelo nell'uovo, ma di fare valutazioni e riflessioni che portano poi a discussioni sui principi logici che sono alla base dei ragionamenti. Non vengono accettati luoghi comuni e frasi fatte. Sarebbe come discutere sulla validità o la fondatezza di un proverbio!
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
pistacchio ha scritto:Leggi bene da dove è partito il tutto e ti renderai conto che siete stati voi a farne un caso di stato
Tutto è partito da una frase che è una puttanata, e da qualcuno che la vuole sostenere a tutti i costi
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
E perchè no invece?
La massima dei buddisti, invece per esempio, mi ha aiutato molto, anche se ci ho messo parecchio tempo per interiorizzarla.
A questo punto non so bene se è buddista o semplicemente un proverbio, mi astengo dallo scriverla altrimenti scateno un'altro vespaio.
Anzi me la tengo solo per me, è una scoperta di cui sono molto gelosa.
Klaus m'avrà già capito.
La massima dei buddisti, invece per esempio, mi ha aiutato molto, anche se ci ho messo parecchio tempo per interiorizzarla.
A questo punto non so bene se è buddista o semplicemente un proverbio, mi astengo dallo scriverla altrimenti scateno un'altro vespaio.
Anzi me la tengo solo per me, è una scoperta di cui sono molto gelosa.
Klaus m'avrà già capito.
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
Essenzialmente, si tratta di una situazione in cui la stessa azione, se fatta da E ad F porta alla morte di entrambi, ma se fatta da F verso E li salva tutti e due.pistacchio ha scritto:
Dell'ultimo esempio che hai scritto non ho capito proprio nulla, è troppo complicato
Non mi pare. E poi, trattandosi di un contesto immaginario, possiamo aumentare di quanto vuoi la sua frequenza nella popolazione.pistacchio ha scritto:
Tu l'hai detto che è una forma rara... ergo ti sei risposto da solo.
Confutatore di che cosa? Io non ho fatto nessuna affermazione universale, qui.pistacchio ha scritto:
Allora il singolo esempio confutatore te lo trovo io
Possibile. Ebbene?pistacchio ha scritto:
il mio gatto cambia espressione quando tento anche solo di offenderlo.
Dipende dal tipo di offesa, ma anche se tutti gli umani capissero al volo qualunque tipologia di offesa che si rivolgesse loro, cosa direbbe ciò sulla regola di cui stiamo discutendo?pistacchio ha scritto:
Se lo capisce un animale figurati se non lo capisce un essere umano qualsiasi.
Ad ogni azione A, corrisponde l'assenza dell'azione che è la negazione di A, ¬A. Altrimenti devi spaccare in due parti uguali l'insieme dei possibili comportamenti, e dirmi cos'è un'azione e cosa non lo è. Se pensi che un'"azione volontaria" coincida coll'invio di un segnale dal cervello a una sua periferica, cerca "Libet" con Google.pistacchio ha scritto:
Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te= azione volontaria
non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te= assenza di azione
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
"Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te" a me è sempre sembrata un'esplicita condanna del sesso etero...
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
pistacchio ha scritto:iosonoateo ha scritto:povera pistacchia alla fine non ha tutti i torti;è vero che in alcune situazioni la frase "non fare agli altri quello che non vorresti essere fatto a te" risulta non funzionante,però come modo di fare non è sbagliato,si tratta solo di evitare determinati comportamenti che potrebbero dare fastidio ad un altra persona tutto qui
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posso capire anche il loro punto di vista.... sai si sentono provocati dalla "pivellina saccente" appena arrivata nel forum... e vogliono fare di tutto per screditarmi
Qualche post indietro Steerpike ti ha chiesto se sei intuizionista
e pare che lo confermi con questo scritto.
Mi pare superfluo dirti che, nel grassetto in evidenza, l'unica verita' presente e' che sei appena arrivata nel forum, il resto e' un trip tuo.
E dico sul serio.
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
*Valerio* ha scritto:pistacchio ha scritto:iosonoateo ha scritto:povera pistacchia alla fine non ha tutti i torti;è vero che in alcune situazioni la frase "non fare agli altri quello che non vorresti essere fatto a te" risulta non funzionante,però come modo di fare non è sbagliato,si tratta solo di evitare determinati comportamenti che potrebbero dare fastidio ad un altra persona tutto qui
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posso capire anche il loro punto di vista.... sai si sentono provocati dalla "pivellina saccente" appena arrivata nel forum... e vogliono fare di tutto per screditarmi
Qualche post indietro Steerpike ti ha chiesto se sei intuizionista
e pare che lo confermi con questo scritto.
Mi pare superfluo dirti che, nel grassetto in evidenza, l'unica verita' presente e' che sei appena arrivata nel forum, il resto e' un trip tuo.
E dico sul serio.
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credevo fosse chiaro
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
pistacchio ha scritto:*Valerio* ha scritto:pistacchio ha scritto:iosonoateo ha scritto:povera pistacchia alla fine non ha tutti i torti;è vero che in alcune situazioni la frase "non fare agli altri quello che non vorresti essere fatto a te" risulta non funzionante,però come modo di fare non è sbagliato,si tratta solo di evitare determinati comportamenti che potrebbero dare fastidio ad un altra persona tutto qui
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posso capire anche il loro punto di vista.... sai si sentono provocati dalla "pivellina saccente" appena arrivata nel forum... e vogliono fare di tutto per screditarmi
Qualche post indietro Steerpike ti ha chiesto se sei intuizionista
e pare che lo confermi con questo scritto.
Mi pare superfluo dirti che, nel grassetto in evidenza, l'unica verita' presente e' che sei appena arrivata nel forum, il resto e' un trip tuo.
E dico sul serio.
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credevo fosse chiaro
Chiarissimo no, malgrado la faccina.
Sono solitamente tranquillo e rilassato, e' una mia caratteristica.
E dato che siamo in argomento ti faccio sapere che questo forum e' frequentato anche "da belve molto feroci"
che non hai ancora avuto modo di conoscere.
Servono spalle larghe. E sono certo che tu le hai.
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occhio pistacchia che qui ti mangiano
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
Se è per scherzo mi faccio una risata altrimenti ciao ciao a tutti quanti. Già la vita è una rottura, manca solo che uno entri in un forum per distrarsi e invece trova belve.
No, non m'interessa avere le spalle larghe, men che meno in un forum
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
Ma non diamo troppa importanza a quello che non ne ga.
Quella roba di "non fare agli altri" è ovvia e non ci sarebbe da discuterne se non analizzando le eccezioni, come eccezioni appunto.
L'idea non è di sentirsi dire che hai ragione ma di capire come pensano gli altri, le contraddizioni si possono qualche volta godere.
Anche adesso, non insegno nulla ma dico il mio punto di vista. Se mi chiedi che belva sono io ah ah mi piace Cappuccetto Rosso a mi.
Poi oggi i poveri lupi si dice che non hanno nessuna colpa.
Fa un po' freddo a Roma oggi o sono io.
Quella roba di "non fare agli altri" è ovvia e non ci sarebbe da discuterne se non analizzando le eccezioni, come eccezioni appunto.
L'idea non è di sentirsi dire che hai ragione ma di capire come pensano gli altri, le contraddizioni si possono qualche volta godere.
Anche adesso, non insegno nulla ma dico il mio punto di vista. Se mi chiedi che belva sono io ah ah mi piace Cappuccetto Rosso a mi.
Poi oggi i poveri lupi si dice che non hanno nessuna colpa.
Fa un po' freddo a Roma oggi o sono io.
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
SergioAD ha scritto:L'idea non è di sentirsi dire che hai ragione ma di capire come pensano gli altri, le contraddizioni si possono qualche volta godere.
No, no sei fuori strada.
Il problema non è il dissenso, ma le parole tipo "boiata" o "massime del piffero" con cui viene espresso.
Bene, chi vuole lo faccia pure.... mi comporterò di conseguenza anch'io.
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
Dire che sono fuori strada o dire che non ho capito un piffero è la stessa cosa, cambia il metodo e accende gli animi. Eppure l'affermazione "sei fuori strada" in un contesto non amichevole non è certo elegante (ti prego considerami amichevole, eh).
Ora vuoi comportarti di conseguenza? Te possino Pista' sei un vulcano! Prima buchi lo schermo col nickname, poi con l'avatar e mo' arrivano pure li piatti! Buona permanenza - tanto ora viene il tuo compaesano e amico mio, mica te lo manda a di'...
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SergioAD- -------------
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
SergioAD ha scritto:Dire che sono fuori strada o dire che non ho capito un piffero è la stessa cosa, cambia il metodo e accende gli animi. Eppure l'affermazione "sei fuori strada" in un contesto non amichevole non è certo elegante (ti prego considerami amichevole, eh).
Ora vuoi comportarti di conseguenza? Te possino Pista' sei un vulcano! Prima buchi lo schermo col nickname, poi con l'avatar e mo' arrivano pure li piatti! Buona permanenza - tanto ora vie. ne il tuo compaesano e amico mio, mica te lo manda a di'...
Ahhhahahha, perfetto quindi adesso hai tutti i motivi e le ragioni per vendicarti. Non mi lamenterò giuro!
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
"Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te" è una bella frase, senz'ombra di dubbio. È semplice ed efficace. Però non la condivido al 100%. In linea di massima possiamo dire è giustissima: non voglio che qualcuno uccida mia madre, io non devo uccidere la madre di nessuno; non voglio essere derubato, non devo derubare nessuno. Ma spesso la cosa non funziona: non voglio essere accarezzato, non devo accarezzare nessuno; non voglio troppe attenzioni, non devo darle a nessuno. In questi casi la frase non va perché c'è chi desidera più premure, chi non ne vuole quasi; chi desidera qualcuno che gli stia sempre vicino, chi vuole stare da solo usualmente ma all'occorrenza desidera compagnia, etc. Penso che la frase quindi possa essere sostituita con una massima tipo "Ognuno è libero di fare ciò che vuole fino a che il suo agire non reca danno a nessuno" (l'ho inventata io al momento, giusto per intenderci).
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
Verde! Oppure propositiva: "fai agli altri quello che gli altri ti dicono di fargli", così salvi pure i masochisti (classico esempio per invalidare il carattere di universalità della massima).
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
Partendo da questo argomento,vi pongo una questione.
Cosa pensate del perdono?
La mia la dirò dopo gli interventi,sono curioso di sapere cosa ne pensano gli utenti su ciò.E quanto sono dissimili ad altri.
Cosa pensate del perdono?
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klaus54- -------------
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
Armycast ha scritto:"Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te" è una bella frase, senz'ombra di dubbio. È semplice ed efficace. Però non la condivido al 100%. In linea di massima possiamo dire è giustissima: non voglio che qualcuno uccida mia madre, io non devo uccidere la madre di nessuno; non voglio essere derubato, non devo derubare nessuno. Ma spesso la cosa non funziona: non voglio essere accarezzato, non devo accarezzare nessuno; non voglio troppe attenzioni, non devo darle a nessuno. In questi casi la frase non va perché c'è chi desidera più premure, chi non ne vuole quasi; chi desidera qualcuno che gli stia sempre vicino, chi vuole stare da solo usualmente ma all'occorrenza desidera compagnia, etc. Penso che la frase quindi possa essere sostituita con una massima tipo "Ognuno è libero di fare ciò che vuole fino a che il suo agire non reca danno a nessuno" (l'ho inventata io al momento, giusto per intenderci).
Oppure "ama il prossimo tuo come te stesso", ma se io mi amo così tanto da volermi suicidare devo uccidere gli altri?
teto- -----------
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
Cosa pensate del perdono?
Poiché penso sia una condizione raggiunta indipendentemente dalla propria volontà, il cui risultato è sentirsi meglio e continuare a vivere in pace, non posso che pensarne tutto il bene.
Mi rendo conto però di "pensare tutto il bene" anche della "vita" in generale, perché è una valutazione che faccio a posteriori, dopo essermi reso conto d'esser vivo.
Più o meno allo stesso modo, posso pensare bene del perdono che ho attuato; di quello che non ho mai fatto invece, non posso pensarne né bene né male.
Per i motivi di cui sopra, penso il perdono all'imperativo (precetto cristiano) non abbia senso.
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BestBeast- -----------
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
Perdonare certo! Vuol dire molto ma non dimenticare, quello non deve avvenire altrimenti l'esperienza diviene un'opinione proprio sulle cose importanti.klaus54 ha scritto:Partendo da questo argomento,vi pongo una questione.
Cosa pensate del perdono?
La mia la dirò dopo gli interventi,sono curioso di sapere cosa ne pensano gli utenti su ciò.E quanto sono dissimili ad altri.
SergioAD- -------------
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
Ora sono io che Non sempre si è in grado di amare se stessi e l'amore verso la propria persona non è un sentimento massimo. Capita anche che si voglia più bene ad un altro che a se. Ne danno conferma i gesti estremi che alcune madri hanno compiuto per salvaguardare il bene dei propri figli, i fidanzati che rischiano la propria vita per quella della propria metà, etc. Inoltre ce ne sono di persone che si odiano e a causa di questa avversione a se trattano gli altri in modo poco umano. È un atteggiamento erratissimo, per quanto giustificabile e patetico. Insomma, anche la parola di Cristo va presa alla leggera.teto ha scritto:Armycast ha scritto:"Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te" è una bella frase, senz'ombra di dubbio. È semplice ed efficace. Però non la condivido al 100%. In linea di massima possiamo dire è giustissima: non voglio che qualcuno uccida mia madre, io non devo uccidere la madre di nessuno; non voglio essere derubato, non devo derubare nessuno. Ma spesso la cosa non funziona: non voglio essere accarezzato, non devo accarezzare nessuno; non voglio troppe attenzioni, non devo darle a nessuno. In questi casi la frase non va perché c'è chi desidera più premure, chi non ne vuole quasi; chi desidera qualcuno che gli stia sempre vicino, chi vuole stare da solo usualmente ma all'occorrenza desidera compagnia, etc. Penso che la frase quindi possa essere sostituita con una massima tipo "Ognuno è libero di fare ciò che vuole fino a che il suo agire non reca danno a nessuno" (l'ho inventata io al momento, giusto per intenderci).
Oppure "ama il prossimo tuo come te stesso", ma se io mi amo così tanto da volermi suicidare devo uccidere gli altri?
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Armycast- -------------
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
Oppure "ama il prossimo tuo come te stesso", ma se io mi amo così tanto da volermi suicidare devo uccidere gli altri?
Il suicidio è la forma più alta di narcisismo egocentrico. In realtà è un transfert del cosiddetto "oggetto d'amore perduto". l'oggetto perduto viene internalizzato e l'odio, non proiettabile per vari motivi su tale oggetto,viene incanalato verso se stessi. è lo stesso principio neuropsichiatrico che sottende l'anoressia o il disturbo borderline di personalità (questo con altri caratteri,ma è simile).
Detto questo, vi dico io cosa penso del perdono.
Il perdono di per sè non dovrebbe esistere. Perché questo concetto dualistico implica la separazione fra un agente perdonante ( buono- vittima- angioletto) e un ricevente perdonato (cattivo, carnefice- diavoletto- pentito), un soggetto e un oggetto. Inoltre è intimamente connesso al concetto di peccato. Concetto, evidentemente di origine cristiana. Che in parte impregna anche chi non lo è ma che è investito sin dall'infanzia da questo pensiero.
Da canto mio preferisco parlare di compassione e di risposta al perdono con gesti esattamente contrari all'offesa.
In un bel passo del Ivuttaka, si dice:
"Il Beato osservò il comportamento della società e notò come molta infelicità derivasse da malignità e da sciocche offese, fatte soltanto per compiacere la vanità e per orgoglio personale.
E il Buddha disse: " Se un uomo stupidamente mi fa del male, gli restituirò la protezione del mio amore senza risentimento; più male mi viene da lui, più bene andrà da me a lui; la fragranza della bontà torna sempre a me, e l'aria nociva del male va a lui". Uno stupido, sapendo che il Buddha osservava il principio del grande amore, che raccomanda la restituzione del bene per il male ricevuto, andò e lo offese.
Il Buddha rimase silenzioso, sentendo pietà per la sua stoltezza. Quando l'uomo ebbe finito di insultare, il Buddha gli chiese: " Figlio, se un uomo rifiutasse di accettare un dono che gli vien fatto, a chi apparterrebbe esso?" E quello rispose: " In quel caso apparterrebbe all'uomo che lo offriva".
" Figlio mio, disse il Buddha tu mi hai rivolto un linguaggio offensivo, ma io rifiuto di accettare la tua offesa, e ti chiedo di tenerla per te. Non sarà essa per te una fonte di infelicità? Come l'eco appartiene al suono, e l'ombra alla sostanza, così l'infelicità ricadrà senza dubbio su colui che fa il male".
L'offensore non rispose e il Buddha continuò: " Un uomo malvagio che rimprovera un virtuoso è come colui che guarda in alto e sputa contro il cielo; lo sputo non insozza il cielo, ma torna in giù e insozza la sua persona. L'uomo virtuoso non può essere danneggiato, e l'infelicità che l'altro vorrebbe infliggergli ricade su di lui".
Il pensiero del perdono va a braccetto con la vendetta. Se si abbandona il pensiero negativo di quest'ultimo (che rode dentro chi ha subito il torto, non chi ha perpetrato l'offesa), si riesce anche a superare il concetto di perdono. Come ogni cosa, tutto è passeggero.
Buona serata.
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klaus54- -------------
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
O anche:Armycast ha scritto:"Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te" è una bella frase,
...
Penso che la frase quindi possa essere sostituita con una massima tipo "Ognuno è libero di fare ciò che vuole fino a che il suo agire non reca danno a nessuno" (l'ho inventata io al momento, giusto per intenderci).
"Libertà: fare ciò che si vuole finché non si impediscano o ostacolino le altrui libertà".
Presuppone una certa sensibilità di fondo (capire le altrui libertà) che non sempre sono tutelate per legge, e che l'uomo/donna medi tendono a evitare di prendere in considerazione. Ergo la società di merda che ci ritroviamo.
loonar- ----------
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
Klaus54,
In genere leggo tutto, a meno che in fondo non c'è quello che penso mi sento abbastanza contrariato.
Non so in quale contesti si potrebbe essere come dici tu - infatti ora l'ho letto.
Questo è non salvaguardare l'istinto di conservazione - non si tratta di insulti o l'offese nell'ambito della moralità ma sopportare colpi che mettono a rischio la sopravvivenza e la riproduzione da qui suppongo derivi tutto il nostro girare intorno alle cose.
Non verso te ma i tuoi figli, i tuoi genitori anziani - tu prova a toccare la testa ad un bambino tailandese e sentirai il bisogno di giustificarti.
Io chiedo perdono perfino quando chiedo l'attenzione delle persone e sono soddisfatto se ricevo la stessa maniera.
Ma mi chiedo se ho capito male?
In genere leggo tutto, a meno che in fondo non c'è quello che penso mi sento abbastanza contrariato.
Non so in quale contesti si potrebbe essere come dici tu - infatti ora l'ho letto.
Questo è non salvaguardare l'istinto di conservazione - non si tratta di insulti o l'offese nell'ambito della moralità ma sopportare colpi che mettono a rischio la sopravvivenza e la riproduzione da qui suppongo derivi tutto il nostro girare intorno alle cose.
Non verso te ma i tuoi figli, i tuoi genitori anziani - tu prova a toccare la testa ad un bambino tailandese e sentirai il bisogno di giustificarti.
Io chiedo perdono perfino quando chiedo l'attenzione delle persone e sono soddisfatto se ricevo la stessa maniera.
Ma mi chiedo se ho capito male?
SergioAD- -------------
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
non fare agli altri ciò che essi non vogliono, accertandosi bene, oltretutto, che costoro abbiano piena consapevolezza e maturità per avere un'opinione certa di ciò che vogliono..
delfi68- -------------
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
klaus54 ha scritto:
Il suicidio è la forma più alta di narcisismo egocentrico. In realtà è un transfert del cosiddetto "oggetto d'amore perduto". l'oggetto perduto viene internalizzato e l'odio, non proiettabile per vari motivi su tale oggetto,viene incanalato verso se stessi. è lo stesso principio neuropsichiatrico che sottende l'anoressia o il disturbo borderline di personalità (questo con altri caratteri,ma è simile).
Cazzate. Il suicidio, quello vero - razionale - è la forma più alta di autodeterminazione, ed in alcuni casi di salvaguardia del gruppo sociale (Vedi Inuit).
Rasputin- ..............
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
klaus54 ha scritto:
Partendo da questo argomento,vi pongo una questione.
Cosa pensate del perdono?
La mia la dirò dopo gli interventi,sono curioso di sapere cosa ne pensano gli utenti su ciò.E quanto sono dissimili ad altri.
Il perdono per me è il riconoscere che la realtà non è perfetta anzi è piena di difetti , quindi ciò che gli altri fanno è frutto di una congiuntura di elementi dove la capacità di intendere delle persone è molto relativa.
Quindi non mi soffermo su un sentimento inutile, perdono perché lascio perdere, perché comprendo i limiti del caso.
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
io non perdono.
io cambio atteggiamento
ma non ritorno su atteggiamenti pre-fatto che hanno causato l'incazzatura
questo metodo permette anche di migliorare il rapporto rispetto ad una situazione basata sul perdono (concessione dall'alto verso il basso)
io cambio atteggiamento
ma non ritorno su atteggiamenti pre-fatto che hanno causato l'incazzatura
questo metodo permette anche di migliorare il rapporto rispetto ad una situazione basata sul perdono (concessione dall'alto verso il basso)
loonar- ----------
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
Rasputin ha scritto:klaus54 ha scritto:
Il suicidio è la forma più alta di narcisismo egocentrico. In realtà è un transfert del cosiddetto "oggetto d'amore perduto". l'oggetto perduto viene internalizzato e l'odio, non proiettabile per vari motivi su tale oggetto,viene incanalato verso se stessi. è lo stesso principio neuropsichiatrico che sottende l'anoressia o il disturbo borderline di personalità (questo con altri caratteri,ma è simile).
Cazzate. Il suicidio, quello vero - razionale - è la forma più alta di autodeterminazione, ed in alcuni casi di salvaguardia del gruppo sociale (Vedi Inuit).
Mi spiace contraddirti.Ma quello che definisci cazzate è scienza.
Insegno neurofisiologia,se può interessarti. Hai sempre la risposta pronta.Cazzate.Boiate.
Si vede che tu hai sempre una marcia in più di tutto ciò che si sa.Modesto.
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
Ma il suicidio è sempre un transfert del cosiddetto "oggetto d'amore perduto"? Pure se uno non si ammazza per amore?
loonar- ----------
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
Se ti interessa,anche se non è sede visto che va fuori topic (in parte...) affronto l'argomento. Che è,come ogni cosa che coinvolge le emozioni (forme istintive di reazione ad uno stimolo esterno,come paura, attrazione, rabbia,ira ecc...) e i sentimenti (insieme di emozioni elaborate a livello cosciente, corticale,per lo più a livello prefrontale) una terra di frontiera ed in comune tra neurofisiologia, neuropsichiatria e psicologia.
Prima di tutto bisogna chiarire il concetto di "oggetto d'amore" e cosa sia l'amore, in termini neuropsichici.
Chiariti i meccanismi fisiologici, sarà più chiaro comprendere i meccanismi psichici ( la psiche, la mente è sovrastruttura del cervello, "metafisica" se vuoi definirlo così,ossia che va oltre il mero dato strutturale dell'organo causa della funzione stessa,che è più ampia e complessa).
L'attrazione è attività mesolimbica, ossia regolata da una struttura all'interno degli emisferi definita appunto corteccia limbica ( la definì così Paul Broca, in quanto "limbus" vuol dire cintura,e la struttura del giro del cingolo, dell'ippocampo, dei corpi mammilari e dell'amigdala ha appunto una forma "avvolgente il talamo e l'ipotalamo, quest'ultimo anch'esso sede di emozioni, tipicamente la paura e la rabbia).
Evoluzionisticamente l'attrazione serve a concepire. Si scatena, in modo piuttosto semplificato, una reazione, attraverso lo stimolo visivo, olfattivo ed uditivo che attiva il circuito deputato al rilascio di serotonina (neurotrasmettitore del piacere) e dell'ossitocina a livello ipotalamico/ipofisario (il neurotrasmettitore dell'allattamento, nonchè dell'istinto materno e dell'affettività "positiva"). Questo avvicina i simili. Dal rettile all'uomo.
Avendo l'uomo un telencefalo, ossia una struttura più recente ed elaborata, esso arriva ad un livello di integrazione cosciente, in cui l'istintività, rielaborata insieme con altri stimoli, diviene affettività. Amore,odio, repulsione, sentimenti che prescindono dalla loro funzione originale, ossia reagire ad uno stimolo, evitarlo o avvicinarvisi.
Ecco che dunque nascono i sentimenti.
Nasce l'amore.
Che serve filologicamente a pochi scopi. Avvicinare il neonato umano (ancora incapace di essere indipendente, un neonato umano per essere come un neonato alla nascita di qualsiasi altra specie mammifera richiederebbe ben 22 mesi di gestazione) e avvicinare la madre a esso. Far interagire il gruppo (l'uomo è una specie sociale) per uno scopo comune, la sopravvivenza del gruppo di appartenenza e come fine ultimo appunto,procreare e tenere legati i membri del gruppo (studi effettuati sui nostri cugini, gli scimpanzè ed i bonobo).
Premesso questo si può passare a cosa sia l'amore e l'oggetto d'amore. Come ultimo si può analizzare il suicidio, che ha differenti connotazioni.
Per far questo bisogna per forza citare Freud.
Un essere umano può amare:
1) Secondo il tipo narcistico (di scelta oggettuale):
a) quel che egli stesso è (cioè se stesso),
b) quel che egli stesso era,
c) quel che egli stesso vorrebbe essere,
d) la persona che fu una parte del proprio sé.
2) Secondo il tipo [di scelta oggettuale] "per appoggio":
a) la donna nutrice,
b) l'uomo protettivo.
Questo in base al modello adottato nei primi mesi di vita, in cui il neonato individua l'oggetto di interesse (indipendentemente dal sesso, si è visto recentemente che non è vero che il neonato predilige il genitore di sesso opposto).
Freud - Introduzione al narcisismo - 1914
Al culmine di un rapporto amoroso non rimane alcun interesse per il mondo circostante; la coppia degli amanti basta a sé stessa, non ha neppure bisogno per essere felice, del bambino che ha in comune. In nessun altro caso Eros svela così chiaramente il nucleo della sua essenza. l'intento di fare di più d'uno uno, ma quando lo ha raggiunto nel modo che è diventato proverbiale, facendo innamorare due essere umani, non vuol andar oltre. (Freud - Il disagio della civiltà - 1930)
In tutti i casi studiati, abbiamo costatato che le persone in seguito invertite (Freud definiva così gli omosessuali, siamo pur sempre agli inizi del '900) attraversano negli anni dell'infanzia vera e propria una fase di fissazione intensa ma breve sulla donna (per lo più la madre); dopo averla superata si identificano con la donna e assumono se stessi come oggetto sessuale, vale a dire, partendo dal narcicismo, cercano uomini giovani e simili alla loro persona che li vogliono amare come li ha amati la loro madre. (Freud - Tre saggi sulla teoria sessuale - 1905 pp.459-460)
Sofferenza [...] ci minaccia da tre parti: dal nostro corpo che, destinato a deperire e a disfarsi, non può eludere quesi segnali di allarme che sono il dolore e l'angoscia, dal mondo esterno che contro di noi può infierire con forze distruttive inesorabili e di potenza immane, e infine dalle nostre relazioni con altri uomini. La sofferenza che trae origine dall'ultima fonte viene da noi avvertita come più dolorosa di ogni altra. (Freud, 1929)
Chiamiamo “idealizzazione” quella tendenza che falsa il giudizio,…come avviene ad esempio invariabilmente nel caso delle infatuazioni amorose, dove l'Io diventa sempre meno esigente, più umile, mentre l'oggetto sempre più magnifico, più prezioso, fino ad impossessarsi da ultimo dell'intero amore che l'Io ha per sé, di modo che, quale conseguenza naturale, si ha l'autosacrificio dell'Io. L'oggetto ha per così divorato l'Io. - S.Freud, Psicologia delle masse e analisi dell'Io (1921)
Tra lo stato amoroso e l'ipnosi non c'è una gran distanza. I punti di rassomiglianza sono evidenti. Nei confronti dell'ipnotizzatore si dimostra la stessa umiltà nella sottomissione, lo stesso abbandono, la stessa mancanza di senso critico che nei confronti della persona amata. Si osserva la stessa rinuncia ad ogni iniziativa personale; indubbiamente l'ipnotizzatore ha preso il posto dell'ideale dell'Io. Solo, nell'ipnosi tutte queste caratteristiche si presentano con più chiarezza ed un maggiore rilievo, di modo che sembrerebbe più opportuno spiegare lo stato amoroso con l'ipnosi che viceversa.
L'amore sensuale è destinato a spegnersi, una volta soddisfatto; per poter durare, esso deve essere associato, fin dagli inizi, ad elementi di pura tenerezza, deviati dallo scopo sessuale, o subire ad un certo punto una trasposizione di questo genere.
Freud, Lutto e melanconia (1915)
….L'accostamento del lutto e della melanconia pare giustificato dal quadro d'insieme di questi due stati. Anche le loro cause occasionali derivanti dalle influenze dell'ambiente, se e quando ci è dato di discernerle, sono le stesse. Il lutto è invariabilmente la reazione alla perdita di una persona amata o di un'astrazione che ne ha preso il posto, la patria ad esempio, o la libertà, o un ideale o così via. La stessa situazione produce in alcuni individui - nei quali sospettiamo perciò la presenza di una disposizione patologica - la melanconia invece del lutto. È peraltro assai rimarchevole il fatto che nonostante il lutto implichi gravi scostamenti rispetto al modo normale di atteggiarsi di fronte alla vita, non ci passa mai per la mente di considerarlo uno stato patologico e di affidare il soggetto che ne è afflitto al trattamento del medico. Confidiamo che il lutto verrà superato dopo un certo periodo di tempo e riteniamo inopportuna o addirittura dannosa qualsiasi interferenza.
La melanconia è psichicamente caratterizzata da un profondo e doloroso scoramento, da un venir meno [Aufhebung] dell'interesse per il mondo esterno, dalla perdita [Verlust] della capacità di amare, dall'inibizione di fronte a qualsiasi attività e da un avvilimento del sentimento di sé che si esprime in autorimproveri e autoingiurie e culmina nell'attesa [Erwartung] delirante di una punizione [Strafe]. Questo quadro guadagna in intelligibilità se consideriamo che il lutto presenta gli stessi tratti [dieselben Züge], ad eccezione di uno [einzigen]; il disturbo del senso di sé va per la sua strada [die Störung des Selbstgefühls fällt bei ihr weg]. Ma per il resto è lo stesso. Il lutto profondo, ossia la reazione alla perdita di una persona amata, implica lo stesso doloroso stato d'animo, la perdita d'interesse per il mondo esterno - fintantoché esso non richiama alla memoria colui che non c'è più -, la perdita della capacità di scegliere un qualsiasi nuovo oggetto d'amore (che significherebbe rimpiazzare il caro defunto), l'avversione per ogni attività che non si ponga in rapporto con la sua memoria. Comprendiamo facilmente che questa inibizione e limitazione dell'Io esprime una dedizione esclusiva al lutto che non lascia spazio ad altri propositi e interessi. In verità questo atteggiamento non ci appare patologico soltanto perché lo sappiamo spiegare così bene.
Parimenti appropriato riterremo il raffronto che qualifica lo stato d'animo del lutto come "doloroso". La sua legittimazione ci risulterà presumibilmente più chiara quando saremo in grado di caratterizzare il dolore dal punto di vista economico.
Orbene, in cosa consiste il lavoro svolto dal lutto? Non credo di forzare le cose se lo descrivo nel modo seguente: l'esame di realtà ha dimostrato che l'oggetto amato non c'è più e comincia a esigere che tutta la libido sia ritirata da ciò che è connesso con tale oggetto. Contro tale richiesta si leva un'avversione ben comprensibile; si può infatti osservare invariabilmente che gli uomini non abbandonano volentieri una posizione libidica, neppure quando dispongono già di un sostituto che li inviti a farlo. Questa avversione può essere talmente intensa da sfociare in un estraniamento dalla realtà e in una pertinace adesione all'oggetto, consentita dall'instaurarsi di una psicosi allucinatoria di desiderio. La normalità è che il rispetto della realtà prenda il sopravvento. Tuttavia questo compito non può esser realizzato immediatamente. Esso può essere portato avanti solo poco per volta e con grande dispendio di tempo e di energia d'investimento; nel frattempo l'esistenza dell'oggetto perduto viene psichicamente prolungata. Tutti i ricordi e le aspettative con riferimento ai quali la libido era legata all'oggetto vengono evocati e sovrainvestiti uno a uno, e il distacco della libido si effettua in relazione a ciascuno di essi. Non è affatto facile indicare con argomentazioni di tipo economico perché tale compromesso con cui viene realizzato poco per volta il comando della realtà risulti così straordinariamente doloroso. Ed è degno di nota che questo dispiacere doloroso ci appaia assolutamente ovvio. Comunque, una volta portato a termine i1 lavoro del lutto, l'Io ridiventa in effetti libero e disinibito.
Proviamo ora ad applicare alla melanconia ciò che abbiamo appreso a proposito del lutto. In una serie di casi è evidente che anche la melanconia può essere la reazione alla perdita di un oggetto amato. In altre circostanze si può invece riscontrare che la perdita è di natura più ideale. Può darsi che l'oggetto non sia morto davvero, ma sia andato perduto come oggetto d'amore [als Liebesobjekt] (è il caso, per esempio, di una sposa abbandonata). In altri casi ancora riteniamo di doverci attenere all'ipotesi di una perdita di questo genere, ma non sappiamo individuare con chiarezza cosa sia andato perduto, e a maggior ragione possiamo supporre che neanche il malato riesca a rendersi conto coscientemente di quel che ha perduto. Quest'ultimo caso potrebbe presentarsi altresì quando il paziente è consapevole della perdita che ha provocato la sua melanconia nel senso che egli sa quando [wen] ma non cosa [was] è andato perduto in lui. Saremmo quindi inclini a connettere in qualche modo la melanconia a una perdita oggettuale [Objektverlust] sottratta alla coscienza , a differenza del lutto in cui nulla di ciò che riguarda la perdita è inconscio.
Per il lutto abbiamo scoperto che l'inibizione e la mancanza d'interesse si spiegano compiutamente con il lavoro del lutto da cui l'Io è assorbito. La perdita inconsapevole [der unbekannte Verlust] che si verifica nella melanconia darà luogo a un analogo lavoro interiore, che diventerà perciò responsabile dell'inibizione melanconica. Solo che l'inibizione melanconica suscita in noi l'impressione di un enigma [einen rätselhaften Eindruck macht] perché non riusciamo a vedere da cosa l'ammalato sia assorbito in maniera così totale. Il melanconico ci presenta un'altra caratteristica che manca nel lutto: uno straordinario avvilimento del suo senso dell'Io [seines Ichgefühls], un enorme impoverimento dell'Io [Ichverharmung] . Nel lutto il mondo si è impoverito e svuotato, nella melanconia lo è l'Io stesso. Il malato ci descrive il suo Io come assolutamente indegno [nichtswürdig], incapace di fare alcunché e moralmente spregevole; si rimprovera, si vilipende e si aspetta ripudio e punizione [erwartet Austoßung und Strafe]. Si svilisce di fronte a tutti e commisera a uno a uno i suoi cari perché sono legati a lui, una persona così indegna [so unwürdige]. Non reputa che in lui sia avvenuto un mutamento, e anzi estende al passato la sua autocritica affermando di non essere mai stato migliore…
… L'analogia con il lutto ci induce a concludere che il melanconico ha subito una perdita che riguarda l'oggetto; da ciò che egli dichiara risulta invece una perdita che riguarda il suo Io.
Prima di addentrarci in questa contraddizione, ci sia consentito prendere in esame per un momento ciò che la sofferenza del melanconico ci permette di arguire sulla costituzione dell'Io umano. Nel melanconico vediamo che una parte dell'Io si contrappone all'altra parte, la valuta criticamente e la assume, per così dire, quale suo oggetto. Il nostro sospetto che l'istanza critica, prodottasi in questo caso per scissione dell'Io, possa dimostrare la sua autonomia anche in altre circostanze sarà confermato da tutte le osservazioni ulteriori. Troveremo davvero che esistono dei motivi validi per separare questa istanza dal resto dell'Io. Ciò che in questo caso impariamo a conoscere è l'istanza comunemente definita coscienza morale; la annovereremo, insieme alla censura della coscienza e all'esame di realtà, fra le grandi istituzioni dell'Io e troveremo anche il modo di dimostrare che può ammalarsi di per sé. Nel quadro morboso della melanconia emerge in primo piano, rispetto alle altre mostranze, la riprovazione morale nei confronti del proprio Io; la valutazione di sé si basa assai più raramente su imperfezioni fisiche, bruttezza, debolezza, inferiorità sociale; solo l'impoverimento assume una posizione di rilievo fra i timori o le dichiarazioni del malato.
La contraddizione che abbiamo prima enunciato [alla fine del penultimo capoverso] può esser chiarita da un'osservazione che peraltro non è difficile fare. Se si ascoltano con pazienza le molteplici e svariate autoaccuse del melanconico, alla fine non ci si può sottrarre all'impressione che spesso le più intense di esse si attagliano pochissimo alla persona del malato e che invece con qualche insignificante variazione si adattano perfettamente a un'altra persona che il malato ama, ha amato o dovrebbe amare. E ogniqualvolta procediamo a un'indagine fattuale, questa supposizione viene confermata. Rendendoci conto che gli autorimproveri sono in realtà rimproveri rivolti a un oggetto d'amore - e da questo poi distolti e riversati sull'Io del malato - abbiamo dunque in mano la chiave del quadro patologico della melanconia.
La donna che commisera fortemente il proprio marito per il fatto che costui è legato a una moglie così incapace, intende in realtà accusare il marito di incapacità, indipendentemente dal significato che a tale incapacità possa essere attribuito. Non c'è da meravigliarsi troppo se fra i rimproveri che si rovescia addosso il malato sono disseminati alcuni autentici autorimproveri; essi possono imporsi perché servono a occultare gli altri, e a rendere impossibile la comprensione di come stanno effettivamente le cose; del resto, anch'essi derivano dai pro e dai contro del conflitto amoroso che ha portato alla perdita dell'oggetto amato. Anche il comportamento degli ammalati diventa ora più comprensibile. Le loro "lamentele" sono "lagnanze", in accordo con l'antico significato della parola [ Klagen , in origine "lamentele" funebri, ha assunto poi il significato di "lagnanze" o "accuse": da cui il termine analogo Anklagen ], non hanno pudore né cercano di nascondersi poiché tutto ciò che di umiliante dicono di sé stessi si riferisce in realtà a qualcun altro; e sono ben lungi dal dimostrare, nei confronti del proprio ambiente, quella docilità e sottomissione che sarebbe l'unico atteggiamento adeguato per persone così indegne. Al contrario sono individui estremamente molesti, che si comportano sempre come se fossero offesi e come se fosse stata loro arrecata una grave ingiustizia. Tutto ciò è possibile soltanto perché il loro modo di reagire continua a derivare da una costellazione psichica di rivolta, la quale poi, in virtù di un determinato processo, è evoluta fino a trasformarsi in contrizione melanconica.
Non è difficile ricostruire questo processo. All'inizio ebbe luogo una scelta oggettuale, un legame della libido a una determinata persona; sotto l'influsso di una reale mortificazione o di una delusione [ einer realen Kränkung oder Enttäuschung ] subita dalla persona amata, questa relazione oggettuale fu gravemente turbata. L'esito non fu già quello normale, ossia il ritiro della libido da questo oggetto e il suo spostamento su un nuovo oggetto, ma fu diverso e tale da richiedere, a quanto sembra, più condizioni per potersi produrre. L'investimento oggettuale si dimostrò scarsamente resistente e fu sospeso, ma la libido divenuta libera non fu spostata su un altro oggetto, bensì riportata nell'Io. Qui non trovò però un impiego qualsiasi, ma fu utilizzata per instaurare una identificazione dell'Io con l'oggetto abbandonato. L'ombra [ Der Schatten ] dell'oggetto cadde così sull'Io che d'ora in avanti poté esser giudicato da un'istanza particolare come un oggetto, e precisamente come l'oggetto abbandonato. In questo modo la perdita dell'oggetto si era trasformata in una perdita dell'Io, e il conflitto fra l'Io e la persona amata in un dissidio fra l'attività critica dell'Io e l'Io alterato dall'identificazione. Alcuni dei presupposti e dei risultati di un processo di questo genere sono immediatamente individuabili. Se da un lato dev'essere stata presente una forte fissazione all'oggetto d'amore, d'altro lato, invece, l'investimento oggettuale deve aver avuto scarse capacità di resistenza. Secondo una calzante osservazione di Otto Rank questa contraddizione sembra rinviare al fatto che la scelta oggettuale si è attuata su basi narcisistiche, per cui l'investimento oggettuale può regredire al narcisismo se gli si fanno innanzi delle difficoltà. L'identificazione narcisistica con l'oggetto si trasforma poi in un sostituto dell'investimento amoroso; l'esito di ciò è che, nonostante il conflitto con la persona amata, non è necessario abbandonare la relazione d'amore. Una sostituzione di questo genere dell'amore oggettuale con un'identificazione costituisce un importante meccanismo delle affezioni narcisistiche; Karl Landauer ha potuto scoprirlo recentemente nel processo di guarigione di un caso di schizofrenia. Esso corrisponde ovviamente alla regressione da un tipo di scelta oggettuale al narcisismo originario. Abbiamo dimostrato altrove che l'identificazione è la fase preliminare della scelta oggettuale, e che essa è il primo modo, peraltro ambivalente nella sua espressione, con cui l'Io evidenzia un oggetto. L'Io vorrebbe incorporare in sé tale oggetto e, data la fase orale o cannibalesca della propria evoluzione libidica, vorrebbe incorporarlo divorandolo. Abraham è certamente nel giusto quando ricorre a questo nesso per spiegare il rifiuto di nutrirsi che compare nelle forme gravi di melanconia…
....Da un lato la melanconia è, come il lutto, una reazione alla perdita effettiva dell'oggetto d'amore, ma, al di là di questo, essa è ancorata a una condizione che nel lutto normale non compare, o, quando compare, lo trasforma in lutto patologico: la perdita dell'oggetto d'amore diventa un'ottima occasione per far valere e mettere in rilievo l'ambivalenza insita nella relazione amorosa. Laddove è presente una disposizione alla nevrosi ossessiva il conflitto dovuto all'ambivalenza conferisce al lutto una configurazione patologica e lo costringe a manifestarsi sotto forma di auto-rimproveri secondo i quali il soggetto è responsabile - ossia ha voluto - la perdita dell'oggetto d'amore. Questi stati di depressione ossessiva susseguenti alla morte di una persona amata ci mostrano ciò di cui è capace di per sé il conflitto dell'ambivalenza, anche quando non è associato al ritiro regressivo della libido. Nella melanconia, le occasioni che danno luogo allo scoppio della malattia, vanno perlopiù al di là del semplice caso di una perdita dovuta alla morte, e si estendono a tutti quei casi di mortificazione, di sensazione di aver subito un torto, di delusione, che o generano un contrasto fra l'amore e l'odio o possono rafforzare un'ambivalenza già esistente. Fra i presupposti della melanconia non va trascurato questo conflitto dovuto all'ambivalenza, di origine ora piu' realistica, ora piu' determinata da fattori costituzionali. Quando l'amore per un oggetto si è rifugiato nell'identificazione narcisistica - ma si tratta di un amore a cui non si può rinunciare nonostante si sia rinunciato all'oggetto stesso - accade che l'odio si metta all'opera contro questo oggetto sostitutivo oltraggiandolo, denigrandolo, facendolo soffrire e derivando da questa sofferenza un sadico soddisfacimento. L'autotormentarsi del melanconico, certamente foriero di godimento, significa, proprio come il fenomeno corrispondente della nevrosi ossessiva, il soddisfacimento di tendenze sadiche o di odio; tali tendenze si riferiscono a un determinato oggetto e hanno trovato il modo di applicarsi alla persona stessa del soggetto nel modo che abbiamo enunciato. Comunque, in entrambe queste affezioni, i malati riescono abitualmente a prendersi le loro rivincite (per la via indiretta dell'autopunizione) sugli oggetti originari, e a tormentare i loro cari per il tramite della malattia nella quale si sono rifugiati onde non dover manifestare direttamente la propria ostilità. Va detto infatti che la persona che ha suscitato il perturbamento emotivo del malato, e in relazione alla quale è orientata la sua sofferenza, si trova in generale fra coloro che a lui sono più vicini. In tal modo l'investimento amoroso del melanconico per il suo oggetto incorre in un duplice destino: una parte regredisce all'identificazione mentre l'altra parte è riportata, sotto l'influsso del conflitto d'ambivalenza, fino allo stadio del sadismo che a quel conflitto è più vicino.
Solo questo sadismo ci spiega l'enigmatica inclinazione al suicidio che rende così interessante la melanconia, e la fa diventare così pericolosa. Tanto enorme è l'amore che l'lo porta a sé stesso, amore nel quale abbiamo individuato la condizione originaria da cui deriva la vita pulsionale, e talmente spropositato è l'importo di libido narcisistica che vediamo sprigionarsi nell'angoscia di fronte a tutto ciò che minaccia l'esistenza dell'Io, che non riusciamo a capacitarci che questo Io possa consentire alla propria distruzione. È ben vero, e lo sappiamo da tempo, che non esiste nevrotico i cui propositi suicidi non si siano determinati a partire da impulsi omicidi diretti su qualche altra persona; tuttavia non riusciamo a capire attraverso quale giuoco di forze tale proposito possa tradursi in atto. Ebbene, l'analisi della melanconia ci insegna che l'Io può uccidersi solo quando, grazie al ritorno dell'investimento oggettuale, riesce a trattare sé stesso come un oggetto, quando può dirigere contro di sé l'ostilità che riguarda un oggetto e che rappresenta la reazione originaria dell'Io rispetto agli oggetti del mondo esterno. Così, nella regressione che parte da una scelta oggettuale di tipo narcisistico è avvenuta certamente una rinuncia all'oggetto, il quale si è rivelato però più forte dell'lo stesso. Nelle due situazioni opposte dell'innamoramento più intenso e del suicidio l'Io è sopraffatto dall'oggetto, seppure in guise completamente differenti.
… La melanconia ci pone di fronte ad altri interrogativi ancora, la cui risposta in parte ci sfugge. Essa condivide con il lutto la peculiarità di risolversi dopo un certo periodo di tempo, senza lasciare dietro di sé alterazioni consistenti e accertabili. A proposito del lutto abbiamo scoperto che è necessario un certo lasso di tempo affinché l'imperativo dell'esame di realtà possa imporsi in tutto e per tutto; e che, quando quest'opera è terminata, l'Io può ridisporre della libido liberatasi dall'oggetto perduto. Possiamo suppore che nella melanconia l'Io sia occupato in un lavoro analogo, anche se, né in questo caso né in quello del lutto, riusciamo a comprendere il significato economico di tali eventi. L'insonnia tipica della melanconia testimonia la rigidità di questa malattia, l'impossibilità di effettuare quel ritiro generalizzato degli investimenti che è necessario affinché si instauri il sonno. Il complesso melanconico si comporta come una ferita aperta che attira su di sé da tutte le parti energie di investimento (energie che nelle nevrosi di traslazione abbiamo chiamato "controinvestimenti") e svuota l'Io fino all'impoverimento totale; tale complesso può facilmente dimostrarsi refrattario al desiderio di dormire proprio dell'Io.
… La caratteristica più singolare della melanconia, e quella che più di tutte necessita di una spiegazione, è la sua tendenza a convertirsi in mania, stato ad essa opposto dal punto di vista dei sintomi. …
… nella mania l'Io dev'essere riuscito a superare la perdita dell'oggetto (o il lutto per tale perdita o magari l'oggetto in sé), e ora tutto l'ammontare di controinvestimenti che la dolorosa sofferenza della melanconia aveva attinto dall'Io per attrarlo e vincolarlo a sé si rende nuovamente disponibile. Il maniaco ci dimostra inequivocabilmente di essersi liberato dell'oggetto che lo aveva fatto soffrire anche perché si getta come un affamato alla ricerca di nuovi investimenti oggettuali.
…Va detto subito che anche il normale lutto supera la perdita dell'oggetto e, finché dura, assorbe anch'esso tutte le energie dell'Io. Perché dunque, esauritosi il lutto, non si verifica neppure lontanamente la condizione necessaria all'instaurarsi di una fase di trionfo? Reputo impossibile dare una risposta immediata a questa obiezione. Grazie ad essa ci rendiamo conto di non riuscire neppure a indicare i procedimenti economici con cui il lutto porta a termine il proprio compito; tuttavia una congettura potrà forse servirci in questo frangente. In relazione a ciascuno dei ricordi e delle aspettative che dimostrano il legame della libido con l'oggetto perduto, la realtà pronuncia il verdetto che l'oggetto non esiste più, e l'lo, quasi fosse posto dinanzi all'alternativa se condividere o meno questo destino, si lascia persuadere - dalla somma dei soddisfacimenti narcisistici - a rimanere in vita, a sciogliere il proprio legame con l'oggetto annientato. Possiamo forse supporre che quest'opera di distacco proceda in modo talmente lento e graduale che, una volta espletata, anche la quantità di energia psichica necessaria a realizzarla si sia esaurita.
… Tuttavia, come abbiamo udito, la melanconia contiene qualcosa in più del normale lutto. Nella melanconia non è facile la relazione nei confronti dell'oggetto, che viene complicata dal conflitto dell'ambivalenza. L'ambivalenza può essere costituzionale, cioè propria di ogni relazione amorosa vissuta dall'Io, o può invece svilupparsi precisamente da quelle esperienze che implicano una minaccia di perdere l'oggetto. Perciò i motivi occasionali che provocano la melanconia possono estendersi in un ambito assai più vasto che non quelli del lutto, il quale di norma trae origine esclusivamente dalla perdita effettiva dell'oggetto, ovverosia dalla sua morte. Nella melanconia si intessono infatti, intorno all'oggetto, innumerevoli conflitti singoli nei quali infuriano l'uno contro l'altro l'odio e l'amore, l'uno inteso a svincolare la libido dall'oggetto, l'altro inteso a mantenere questa posizione libidica contro l'assalto che le viene mosso. Questi singoli conflitti non possiamo localizzarli in alcun altro sistema se non nell'inconscio, il regno delle tracce mnestiche delle cose (in antitesi con gli investimenti verbali). Proprio in questo sistema si svolgono anche i tentativi di distacco libidico propri del lutto. Ma a proposito di quest'ultimo non esiste alcun impedimento a che tali processi procedano normalmente attraverso il Preconscio per giungere fino alla coscienza. Questa via è invece sbarrata per il lavoro della melanconia, forse per una pluralità di cause o per l'azione congiunta che esse esercitano. L'ambivalenza costituzionale appartiene in sé e per sé al rimosso; gli eventi traumatici esperiti in relazione all'oggetto possono aver attivato altri elementi rimossi. In tal modo tutto ciò che si riferisce a questi conflitti di ambi valenza è sottratto alla coscienza fino a che non compare l'esito caratteristico della melanconia. Come sappiamo esso consiste nel fatto che l'investimento libidico minacciato abbandona finalmente l'oggetto, ma solo per ritirarsi e reinsediarsi nell'Io dal quale era stato esternato. Rifugiandosi nell'Io, l'amore si sottrae così alla dissoluzione. In seguito a questa regressione della libido il processo può diventare cosciente e si presenta al cospetto della coscienza come un conflitto fra una parte dell'Io e l'istanza critica.
Ciò che la coscienza viene a sapere del lavoro melanconico non è quindi l'elemento essenziale, e neppure quello al quale possiamo attribuire una capacità di porre termine alla sofferenza. Noi costatiamo che l'Io si svalorizza e infierisce crudelmente contro sé stesso, e non comprendiamo, come non lo comprende il malato, a qual fine tenda tutto ciò e come possa esser mutato. Possiamo tutt'al più attribuire una funzione di questo genere alla componente inconscia del lavoro melanconico poiché non è difficile rintracciare una analogia fondamentale fra quest'ultimo e il lavoro del lutto. Come il lutto induce l'Io a rinunciare all'oggetto dichiarandolo morto, e offrendo all'Io, in cambio di questa rinuncia, il premio di restare in vita, così ogni singolo conflitto d'ambivalenza allenta la fissazione libidica all'oggetto poiché lo denigra, lo svilisce e, in certo modo, lo distrugge. È possibile che il processo si concluda nell'inc, o dopo che la collera si è esaurita o dopo che l'oggetto è stato abbandonato perché privo di valore. Non sappiamo dire quale di queste due possibilità ponga fine invariabilmente, o con maggiore frequenza, alla melanconia e in che modo questa conclusione incida sull'ulteriore decorso del caso. Può darsi che l'Io provi la soddisfazione di sapersi migliore dell'oggetto, di potersi riconoscere come superiore ad esso.
... Dei tre presupposti della melanconia - perdita dell'oggetto, ambivalenza e regressione della libido nell'Io - i primi due li ritroviamo nei rimproveri ossessivi susseguenti a casi di morte. In questi rimproveri l'ambivalenza rappresenta indubitabilmente la forza motrice del conflitto e l'osservazione permette di costatare che quando esso si risolve non resta nulla che faccia pensare al trionfo di una situazione maniacale. Siamo in tal modo rinviati al terzo presupposto della melanconia come all'unico fattore capace di incidere su ciò che viene dopo. Quell'accumulo di investimenti che dapprima è legato e poi diventa libero quando il lavoro melanconico si è concluso, consentendo lo svilupparsi della mania, deve essere in rapporto con la regressione libidica alla fase del narcisismo. Il conflitto all'interno dell'Io, che nella melanconia prende il posto della lotta riguardo all'oggetto deve agire come una ferita dolorosa che pretende un controinvestimento straordinariamente elevato. Ma a questo punto sarà bene arrestarsi e rinviare la delucidazione ulteriore della mania a quando avremo acquisito una chiara visione della natura psicologica innanzitutto del dolore fisico, e poi del dolore psichico ad esso analogo. ..
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Il lutto è invariabilmente la reazione alla perdita di una persona amata o di un'astrazione che ne ha preso il posto, la patria ad esempio, o la libertà, o un ideale o così via.
Il lutto profondo, ossia la reazione alla perdita di una persona amata, implica lo stesso doloroso stato d'animo, la perdita d'interesse per il mondo esterno - fintantoché esso non richiama alla memoria colui che non c'è più -, la perdita della capacità di scegliere un qualsiasi nuovo oggetto d'amore (che significherebbe rimpiazzare il caro defunto), l'avversione per ogni attività che non si ponga in rapporto con la sua memoria.
Comprendiamo facilmente che questa inibizione e limitazione dell'Io esprime una dedizione esclusiva al lutto che non lascia spazio ad altri propositi e interessi. In verità questo atteggiamento non ci appare patologico soltanto perché lo sappiamo spiegare così bene.
Parimenti appropriato riterremo il raffronto che qualifica lo stato d'animo del lutto come "doloroso". La sua legittimazione ci risulterà presumibilmente più chiara quando saremo in grado di caratterizzare il dolore dal punto di vista economico.
Orbene, in cosa consiste il lavoro svolto dal lutto? Non credo di forzare le cose se lo descrivo nel modo seguente: l'esame di realtà ha dimostrato che l'oggetto amato non c'è più e comincia a esigere che tutta la libido sia ritirata da ciò che è connesso con tale oggetto. Contro tale richiesta si leva un'avversione ben comprensibile; si può infatti osservare invariabilmente che gli uomini non abbandonano volentieri una posizione libidica, neppure quando dispongono già di un sostituto che li inviti a farlo. Questa avversione può essere talmente intensa da sfociare in un estraniamento dalla realtà e in una pertinace adesione all'oggetto, consentita dall'instaurarsi di una psicosi allucinatoria di desiderio. La normalità è che il rispetto della realtà prenda il sopravvento.
Tuttavia questo compito non può esser realizzato immediatamente. Esso può essere portato avanti solo poco per volta e con grande dispendio di tempo e di energia d'investimento; nel frattempo l'esistenza dell'oggetto perduto viene psichicamente prolungata. Tutti i ricordi e le aspettative con riferimento ai quali la libido era legata all'oggetto vengono evocati e sovrainvestiti uno a uno, e il distacco della libido si effettua in relazione a ciascuno di essi. Non è affatto facile indicare con argomentazioni di tipo economico perché tale compromesso con cui viene realizzato poco per volta il comando della realtà risulti così straordinariamente doloroso. Ed è degno di nota che questo dispiacere doloroso ci appaia assolutamente ovvio. Comunque, una volta portato a termine i1 lavoro del lutto, l'Io ridiventa in effetti libero e disinibito.
All'inizio ebbe luogo una scelta oggettuale, un legame della libido a una determinata persona; sotto l'influsso di una reale mortificazione o di una delusione subita dalla persona amata, questa relazione oggettuale fu gravemente turbata. L'esito non fu già quello normale, ossia il ritiro della libido da questo oggetto e il suo spostamento su un nuovo oggetto, ma fu diverso e tale da richiedere, a quanto sembra, più condizioni per potersi produrre. L'investimento oggettuale si dimostrò scarsamente resistente e fu sospeso, ma la libido divenuta libera non fu spostata su un altro oggetto, bensì riportata nell'Io. Qui non trovò però un impiego qualsiasi, ma fu utilizzata per instaurare una identificazione dell'Io con l'oggetto abbandonato. L'ombra dell'oggetto cadde così sull'Io che d'ora in avanti poté esser giudicato da un'istanza particolare come un oggetto, e precisamente come l'oggetto abbandonato. In questo modo la perdita dell'oggetto si era trasformata in una perdita dell'Io, e il conflitto fra l'Io e la persona amata in un dissidio fra l'attività critica dell'Io e l'Io alterato dall'identificazione. Alcuni dei presupposti e dei risultati di un processo di questo genere sono immediatamente individuabili. Se da un lato dev'essere stata presente una forte fissazione all'oggetto d'amore, d'altro lato, invece, l'investimento oggettuale deve aver avuto scarse capacità di resistenza. Secondo una calzante osservazione di Otto Rank questa contraddizione sembra rinviare al fatto che la scelta oggettuale si è attuata su basi narcisistiche, per cui l'investimento oggettuale può regredire al narcisismo se gli si fanno innanzi delle difficoltà. L'identificazione narcisistica con l'oggetto si trasforma poi in un sostituto dell'investimento amoroso; l'esito di ciò è che, nonostante il conflitto con la persona amata, non è necessario abbandonare la relazione d'amore. Una sostituzione di questo genere dell'amore oggettuale con un'identificazione costituisce un importante meccanismo delle affezioni narcisistiche. Esso corrisponde ovviamente alla regressione da un tipo di scelta oggettuale al narcisismo originario.
Abbiamo dimostrato altrove che l'identificazione è la fase preliminare della scelta oggettuale, e che essa è il primo modo, peraltro ambivalente nella sua espressione, con cui l'Io evidenzia un oggetto. L'Io vorrebbe incorporare in sé tale oggetto e, data la fase orale o cannibalesca della propria evoluzione libidica, vorrebbe incorporarlo divorandolo. Abraham è certamente nel giusto quando ricorre a questo nesso per spiegare il rifiuto di nutrirsi che compare nelle forme gravi di melanconia.
I motivi della malattia spesso cominciano ad agire fin dall'infanzia: una bambina desiderosa d'amore non si accontenta di dividere l'affetto dei genitori con le sorelle e i fratelli, e ha scoperto di essere il solo oggetto del loro affetto quando stimola la loro preoccupazione per la sua salute. Con la malattia, scopre un metodo per adescare e sollecitare l'amore dei suoi genitori, e se ne servirà ogni volta che avrà a propria disposizione materiale psichico sufficiente alla simulazione di un disturbo. Quando una bambina come questa sarà divenuta donna, potrà trovare tutte le esigenze già appartenenti alla sua infanzia contrariate, mettiamo, da un matrimonio sbagliato, con un uomo che la voglia tenere soggiogata, che sfrutti senza pietà le sue capacità lavorative e non le dia né affetto né denaro. In un caso come questo, la malattia sarà per lei un ottimo sistema per mantenere le sue posizioni: le procurerà le attenzioni di cui ha bisogno; costringerà il marito a fare dei sacrifici economici per lei e a mostrarsi interessato alle sue condizioni, cosa che non aveva mai fatto quando stava bene; lo costringerà perfino a trattarla bene quando sarà guarita, pena ricaduta.
Detto questo il suicidio può avere due moventi.
Di tipo narcisistico e di tipo sociale. Come diceva Rasputin con gli Inuit.
Mentre il secondo è tipicamente dimostrativo, altruistico, in cui il "Se" del suicidario si annulla con il "Se" del gruppo di appartenenza e pertanto la funzione dell'io come stimolo di autoconservazione viene meno in quanto sublimato a livello più alto (gruppo,clan, etnia, nazione, ecc.), il restante è sempre richiesta di attenzioni.
Attenzioni di amore, che egli non ha avuto o ha perso. Di solito sono tentativi suicidari,ma l'odio profondo radicato per ciò che non può essere colpito ( come la madre dell'anoressica,in cui l'immagine viene interiorizzata,ed è per questo che la terapia è l'allontanamento dal nucleo familiare) viene interiorizzato. Uccidendo me,uccido chi mi fa soffrire, con la sua assenza. è questo il meccanismo del suicidio patologico.
Di chi è solo. Di chi soffre in silenzio. Di chi la società emargina.
Spero mi sia spiegato ora.
Prima di tutto bisogna chiarire il concetto di "oggetto d'amore" e cosa sia l'amore, in termini neuropsichici.
Chiariti i meccanismi fisiologici, sarà più chiaro comprendere i meccanismi psichici ( la psiche, la mente è sovrastruttura del cervello, "metafisica" se vuoi definirlo così,ossia che va oltre il mero dato strutturale dell'organo causa della funzione stessa,che è più ampia e complessa).
L'attrazione è attività mesolimbica, ossia regolata da una struttura all'interno degli emisferi definita appunto corteccia limbica ( la definì così Paul Broca, in quanto "limbus" vuol dire cintura,e la struttura del giro del cingolo, dell'ippocampo, dei corpi mammilari e dell'amigdala ha appunto una forma "avvolgente il talamo e l'ipotalamo, quest'ultimo anch'esso sede di emozioni, tipicamente la paura e la rabbia).
Evoluzionisticamente l'attrazione serve a concepire. Si scatena, in modo piuttosto semplificato, una reazione, attraverso lo stimolo visivo, olfattivo ed uditivo che attiva il circuito deputato al rilascio di serotonina (neurotrasmettitore del piacere) e dell'ossitocina a livello ipotalamico/ipofisario (il neurotrasmettitore dell'allattamento, nonchè dell'istinto materno e dell'affettività "positiva"). Questo avvicina i simili. Dal rettile all'uomo.
Avendo l'uomo un telencefalo, ossia una struttura più recente ed elaborata, esso arriva ad un livello di integrazione cosciente, in cui l'istintività, rielaborata insieme con altri stimoli, diviene affettività. Amore,odio, repulsione, sentimenti che prescindono dalla loro funzione originale, ossia reagire ad uno stimolo, evitarlo o avvicinarvisi.
Ecco che dunque nascono i sentimenti.
Nasce l'amore.
Che serve filologicamente a pochi scopi. Avvicinare il neonato umano (ancora incapace di essere indipendente, un neonato umano per essere come un neonato alla nascita di qualsiasi altra specie mammifera richiederebbe ben 22 mesi di gestazione) e avvicinare la madre a esso. Far interagire il gruppo (l'uomo è una specie sociale) per uno scopo comune, la sopravvivenza del gruppo di appartenenza e come fine ultimo appunto,procreare e tenere legati i membri del gruppo (studi effettuati sui nostri cugini, gli scimpanzè ed i bonobo).
Premesso questo si può passare a cosa sia l'amore e l'oggetto d'amore. Come ultimo si può analizzare il suicidio, che ha differenti connotazioni.
Per far questo bisogna per forza citare Freud.
Un essere umano può amare:
1) Secondo il tipo narcistico (di scelta oggettuale):
a) quel che egli stesso è (cioè se stesso),
b) quel che egli stesso era,
c) quel che egli stesso vorrebbe essere,
d) la persona che fu una parte del proprio sé.
2) Secondo il tipo [di scelta oggettuale] "per appoggio":
a) la donna nutrice,
b) l'uomo protettivo.
Questo in base al modello adottato nei primi mesi di vita, in cui il neonato individua l'oggetto di interesse (indipendentemente dal sesso, si è visto recentemente che non è vero che il neonato predilige il genitore di sesso opposto).
Freud - Introduzione al narcisismo - 1914
Al culmine di un rapporto amoroso non rimane alcun interesse per il mondo circostante; la coppia degli amanti basta a sé stessa, non ha neppure bisogno per essere felice, del bambino che ha in comune. In nessun altro caso Eros svela così chiaramente il nucleo della sua essenza. l'intento di fare di più d'uno uno, ma quando lo ha raggiunto nel modo che è diventato proverbiale, facendo innamorare due essere umani, non vuol andar oltre. (Freud - Il disagio della civiltà - 1930)
In tutti i casi studiati, abbiamo costatato che le persone in seguito invertite (Freud definiva così gli omosessuali, siamo pur sempre agli inizi del '900) attraversano negli anni dell'infanzia vera e propria una fase di fissazione intensa ma breve sulla donna (per lo più la madre); dopo averla superata si identificano con la donna e assumono se stessi come oggetto sessuale, vale a dire, partendo dal narcicismo, cercano uomini giovani e simili alla loro persona che li vogliono amare come li ha amati la loro madre. (Freud - Tre saggi sulla teoria sessuale - 1905 pp.459-460)
Sofferenza [...] ci minaccia da tre parti: dal nostro corpo che, destinato a deperire e a disfarsi, non può eludere quesi segnali di allarme che sono il dolore e l'angoscia, dal mondo esterno che contro di noi può infierire con forze distruttive inesorabili e di potenza immane, e infine dalle nostre relazioni con altri uomini. La sofferenza che trae origine dall'ultima fonte viene da noi avvertita come più dolorosa di ogni altra. (Freud, 1929)
Chiamiamo “idealizzazione” quella tendenza che falsa il giudizio,…come avviene ad esempio invariabilmente nel caso delle infatuazioni amorose, dove l'Io diventa sempre meno esigente, più umile, mentre l'oggetto sempre più magnifico, più prezioso, fino ad impossessarsi da ultimo dell'intero amore che l'Io ha per sé, di modo che, quale conseguenza naturale, si ha l'autosacrificio dell'Io. L'oggetto ha per così divorato l'Io. - S.Freud, Psicologia delle masse e analisi dell'Io (1921)
Tra lo stato amoroso e l'ipnosi non c'è una gran distanza. I punti di rassomiglianza sono evidenti. Nei confronti dell'ipnotizzatore si dimostra la stessa umiltà nella sottomissione, lo stesso abbandono, la stessa mancanza di senso critico che nei confronti della persona amata. Si osserva la stessa rinuncia ad ogni iniziativa personale; indubbiamente l'ipnotizzatore ha preso il posto dell'ideale dell'Io. Solo, nell'ipnosi tutte queste caratteristiche si presentano con più chiarezza ed un maggiore rilievo, di modo che sembrerebbe più opportuno spiegare lo stato amoroso con l'ipnosi che viceversa.
L'amore sensuale è destinato a spegnersi, una volta soddisfatto; per poter durare, esso deve essere associato, fin dagli inizi, ad elementi di pura tenerezza, deviati dallo scopo sessuale, o subire ad un certo punto una trasposizione di questo genere.
Freud, Lutto e melanconia (1915)
….L'accostamento del lutto e della melanconia pare giustificato dal quadro d'insieme di questi due stati. Anche le loro cause occasionali derivanti dalle influenze dell'ambiente, se e quando ci è dato di discernerle, sono le stesse. Il lutto è invariabilmente la reazione alla perdita di una persona amata o di un'astrazione che ne ha preso il posto, la patria ad esempio, o la libertà, o un ideale o così via. La stessa situazione produce in alcuni individui - nei quali sospettiamo perciò la presenza di una disposizione patologica - la melanconia invece del lutto. È peraltro assai rimarchevole il fatto che nonostante il lutto implichi gravi scostamenti rispetto al modo normale di atteggiarsi di fronte alla vita, non ci passa mai per la mente di considerarlo uno stato patologico e di affidare il soggetto che ne è afflitto al trattamento del medico. Confidiamo che il lutto verrà superato dopo un certo periodo di tempo e riteniamo inopportuna o addirittura dannosa qualsiasi interferenza.
La melanconia è psichicamente caratterizzata da un profondo e doloroso scoramento, da un venir meno [Aufhebung] dell'interesse per il mondo esterno, dalla perdita [Verlust] della capacità di amare, dall'inibizione di fronte a qualsiasi attività e da un avvilimento del sentimento di sé che si esprime in autorimproveri e autoingiurie e culmina nell'attesa [Erwartung] delirante di una punizione [Strafe]. Questo quadro guadagna in intelligibilità se consideriamo che il lutto presenta gli stessi tratti [dieselben Züge], ad eccezione di uno [einzigen]; il disturbo del senso di sé va per la sua strada [die Störung des Selbstgefühls fällt bei ihr weg]. Ma per il resto è lo stesso. Il lutto profondo, ossia la reazione alla perdita di una persona amata, implica lo stesso doloroso stato d'animo, la perdita d'interesse per il mondo esterno - fintantoché esso non richiama alla memoria colui che non c'è più -, la perdita della capacità di scegliere un qualsiasi nuovo oggetto d'amore (che significherebbe rimpiazzare il caro defunto), l'avversione per ogni attività che non si ponga in rapporto con la sua memoria. Comprendiamo facilmente che questa inibizione e limitazione dell'Io esprime una dedizione esclusiva al lutto che non lascia spazio ad altri propositi e interessi. In verità questo atteggiamento non ci appare patologico soltanto perché lo sappiamo spiegare così bene.
Parimenti appropriato riterremo il raffronto che qualifica lo stato d'animo del lutto come "doloroso". La sua legittimazione ci risulterà presumibilmente più chiara quando saremo in grado di caratterizzare il dolore dal punto di vista economico.
Orbene, in cosa consiste il lavoro svolto dal lutto? Non credo di forzare le cose se lo descrivo nel modo seguente: l'esame di realtà ha dimostrato che l'oggetto amato non c'è più e comincia a esigere che tutta la libido sia ritirata da ciò che è connesso con tale oggetto. Contro tale richiesta si leva un'avversione ben comprensibile; si può infatti osservare invariabilmente che gli uomini non abbandonano volentieri una posizione libidica, neppure quando dispongono già di un sostituto che li inviti a farlo. Questa avversione può essere talmente intensa da sfociare in un estraniamento dalla realtà e in una pertinace adesione all'oggetto, consentita dall'instaurarsi di una psicosi allucinatoria di desiderio. La normalità è che il rispetto della realtà prenda il sopravvento. Tuttavia questo compito non può esser realizzato immediatamente. Esso può essere portato avanti solo poco per volta e con grande dispendio di tempo e di energia d'investimento; nel frattempo l'esistenza dell'oggetto perduto viene psichicamente prolungata. Tutti i ricordi e le aspettative con riferimento ai quali la libido era legata all'oggetto vengono evocati e sovrainvestiti uno a uno, e il distacco della libido si effettua in relazione a ciascuno di essi. Non è affatto facile indicare con argomentazioni di tipo economico perché tale compromesso con cui viene realizzato poco per volta il comando della realtà risulti così straordinariamente doloroso. Ed è degno di nota che questo dispiacere doloroso ci appaia assolutamente ovvio. Comunque, una volta portato a termine i1 lavoro del lutto, l'Io ridiventa in effetti libero e disinibito.
Proviamo ora ad applicare alla melanconia ciò che abbiamo appreso a proposito del lutto. In una serie di casi è evidente che anche la melanconia può essere la reazione alla perdita di un oggetto amato. In altre circostanze si può invece riscontrare che la perdita è di natura più ideale. Può darsi che l'oggetto non sia morto davvero, ma sia andato perduto come oggetto d'amore [als Liebesobjekt] (è il caso, per esempio, di una sposa abbandonata). In altri casi ancora riteniamo di doverci attenere all'ipotesi di una perdita di questo genere, ma non sappiamo individuare con chiarezza cosa sia andato perduto, e a maggior ragione possiamo supporre che neanche il malato riesca a rendersi conto coscientemente di quel che ha perduto. Quest'ultimo caso potrebbe presentarsi altresì quando il paziente è consapevole della perdita che ha provocato la sua melanconia nel senso che egli sa quando [wen] ma non cosa [was] è andato perduto in lui. Saremmo quindi inclini a connettere in qualche modo la melanconia a una perdita oggettuale [Objektverlust] sottratta alla coscienza , a differenza del lutto in cui nulla di ciò che riguarda la perdita è inconscio.
Per il lutto abbiamo scoperto che l'inibizione e la mancanza d'interesse si spiegano compiutamente con il lavoro del lutto da cui l'Io è assorbito. La perdita inconsapevole [der unbekannte Verlust] che si verifica nella melanconia darà luogo a un analogo lavoro interiore, che diventerà perciò responsabile dell'inibizione melanconica. Solo che l'inibizione melanconica suscita in noi l'impressione di un enigma [einen rätselhaften Eindruck macht] perché non riusciamo a vedere da cosa l'ammalato sia assorbito in maniera così totale. Il melanconico ci presenta un'altra caratteristica che manca nel lutto: uno straordinario avvilimento del suo senso dell'Io [seines Ichgefühls], un enorme impoverimento dell'Io [Ichverharmung] . Nel lutto il mondo si è impoverito e svuotato, nella melanconia lo è l'Io stesso. Il malato ci descrive il suo Io come assolutamente indegno [nichtswürdig], incapace di fare alcunché e moralmente spregevole; si rimprovera, si vilipende e si aspetta ripudio e punizione [erwartet Austoßung und Strafe]. Si svilisce di fronte a tutti e commisera a uno a uno i suoi cari perché sono legati a lui, una persona così indegna [so unwürdige]. Non reputa che in lui sia avvenuto un mutamento, e anzi estende al passato la sua autocritica affermando di non essere mai stato migliore…
… L'analogia con il lutto ci induce a concludere che il melanconico ha subito una perdita che riguarda l'oggetto; da ciò che egli dichiara risulta invece una perdita che riguarda il suo Io.
Prima di addentrarci in questa contraddizione, ci sia consentito prendere in esame per un momento ciò che la sofferenza del melanconico ci permette di arguire sulla costituzione dell'Io umano. Nel melanconico vediamo che una parte dell'Io si contrappone all'altra parte, la valuta criticamente e la assume, per così dire, quale suo oggetto. Il nostro sospetto che l'istanza critica, prodottasi in questo caso per scissione dell'Io, possa dimostrare la sua autonomia anche in altre circostanze sarà confermato da tutte le osservazioni ulteriori. Troveremo davvero che esistono dei motivi validi per separare questa istanza dal resto dell'Io. Ciò che in questo caso impariamo a conoscere è l'istanza comunemente definita coscienza morale; la annovereremo, insieme alla censura della coscienza e all'esame di realtà, fra le grandi istituzioni dell'Io e troveremo anche il modo di dimostrare che può ammalarsi di per sé. Nel quadro morboso della melanconia emerge in primo piano, rispetto alle altre mostranze, la riprovazione morale nei confronti del proprio Io; la valutazione di sé si basa assai più raramente su imperfezioni fisiche, bruttezza, debolezza, inferiorità sociale; solo l'impoverimento assume una posizione di rilievo fra i timori o le dichiarazioni del malato.
La contraddizione che abbiamo prima enunciato [alla fine del penultimo capoverso] può esser chiarita da un'osservazione che peraltro non è difficile fare. Se si ascoltano con pazienza le molteplici e svariate autoaccuse del melanconico, alla fine non ci si può sottrarre all'impressione che spesso le più intense di esse si attagliano pochissimo alla persona del malato e che invece con qualche insignificante variazione si adattano perfettamente a un'altra persona che il malato ama, ha amato o dovrebbe amare. E ogniqualvolta procediamo a un'indagine fattuale, questa supposizione viene confermata. Rendendoci conto che gli autorimproveri sono in realtà rimproveri rivolti a un oggetto d'amore - e da questo poi distolti e riversati sull'Io del malato - abbiamo dunque in mano la chiave del quadro patologico della melanconia.
La donna che commisera fortemente il proprio marito per il fatto che costui è legato a una moglie così incapace, intende in realtà accusare il marito di incapacità, indipendentemente dal significato che a tale incapacità possa essere attribuito. Non c'è da meravigliarsi troppo se fra i rimproveri che si rovescia addosso il malato sono disseminati alcuni autentici autorimproveri; essi possono imporsi perché servono a occultare gli altri, e a rendere impossibile la comprensione di come stanno effettivamente le cose; del resto, anch'essi derivano dai pro e dai contro del conflitto amoroso che ha portato alla perdita dell'oggetto amato. Anche il comportamento degli ammalati diventa ora più comprensibile. Le loro "lamentele" sono "lagnanze", in accordo con l'antico significato della parola [ Klagen , in origine "lamentele" funebri, ha assunto poi il significato di "lagnanze" o "accuse": da cui il termine analogo Anklagen ], non hanno pudore né cercano di nascondersi poiché tutto ciò che di umiliante dicono di sé stessi si riferisce in realtà a qualcun altro; e sono ben lungi dal dimostrare, nei confronti del proprio ambiente, quella docilità e sottomissione che sarebbe l'unico atteggiamento adeguato per persone così indegne. Al contrario sono individui estremamente molesti, che si comportano sempre come se fossero offesi e come se fosse stata loro arrecata una grave ingiustizia. Tutto ciò è possibile soltanto perché il loro modo di reagire continua a derivare da una costellazione psichica di rivolta, la quale poi, in virtù di un determinato processo, è evoluta fino a trasformarsi in contrizione melanconica.
Non è difficile ricostruire questo processo. All'inizio ebbe luogo una scelta oggettuale, un legame della libido a una determinata persona; sotto l'influsso di una reale mortificazione o di una delusione [ einer realen Kränkung oder Enttäuschung ] subita dalla persona amata, questa relazione oggettuale fu gravemente turbata. L'esito non fu già quello normale, ossia il ritiro della libido da questo oggetto e il suo spostamento su un nuovo oggetto, ma fu diverso e tale da richiedere, a quanto sembra, più condizioni per potersi produrre. L'investimento oggettuale si dimostrò scarsamente resistente e fu sospeso, ma la libido divenuta libera non fu spostata su un altro oggetto, bensì riportata nell'Io. Qui non trovò però un impiego qualsiasi, ma fu utilizzata per instaurare una identificazione dell'Io con l'oggetto abbandonato. L'ombra [ Der Schatten ] dell'oggetto cadde così sull'Io che d'ora in avanti poté esser giudicato da un'istanza particolare come un oggetto, e precisamente come l'oggetto abbandonato. In questo modo la perdita dell'oggetto si era trasformata in una perdita dell'Io, e il conflitto fra l'Io e la persona amata in un dissidio fra l'attività critica dell'Io e l'Io alterato dall'identificazione. Alcuni dei presupposti e dei risultati di un processo di questo genere sono immediatamente individuabili. Se da un lato dev'essere stata presente una forte fissazione all'oggetto d'amore, d'altro lato, invece, l'investimento oggettuale deve aver avuto scarse capacità di resistenza. Secondo una calzante osservazione di Otto Rank questa contraddizione sembra rinviare al fatto che la scelta oggettuale si è attuata su basi narcisistiche, per cui l'investimento oggettuale può regredire al narcisismo se gli si fanno innanzi delle difficoltà. L'identificazione narcisistica con l'oggetto si trasforma poi in un sostituto dell'investimento amoroso; l'esito di ciò è che, nonostante il conflitto con la persona amata, non è necessario abbandonare la relazione d'amore. Una sostituzione di questo genere dell'amore oggettuale con un'identificazione costituisce un importante meccanismo delle affezioni narcisistiche; Karl Landauer ha potuto scoprirlo recentemente nel processo di guarigione di un caso di schizofrenia. Esso corrisponde ovviamente alla regressione da un tipo di scelta oggettuale al narcisismo originario. Abbiamo dimostrato altrove che l'identificazione è la fase preliminare della scelta oggettuale, e che essa è il primo modo, peraltro ambivalente nella sua espressione, con cui l'Io evidenzia un oggetto. L'Io vorrebbe incorporare in sé tale oggetto e, data la fase orale o cannibalesca della propria evoluzione libidica, vorrebbe incorporarlo divorandolo. Abraham è certamente nel giusto quando ricorre a questo nesso per spiegare il rifiuto di nutrirsi che compare nelle forme gravi di melanconia…
....Da un lato la melanconia è, come il lutto, una reazione alla perdita effettiva dell'oggetto d'amore, ma, al di là di questo, essa è ancorata a una condizione che nel lutto normale non compare, o, quando compare, lo trasforma in lutto patologico: la perdita dell'oggetto d'amore diventa un'ottima occasione per far valere e mettere in rilievo l'ambivalenza insita nella relazione amorosa. Laddove è presente una disposizione alla nevrosi ossessiva il conflitto dovuto all'ambivalenza conferisce al lutto una configurazione patologica e lo costringe a manifestarsi sotto forma di auto-rimproveri secondo i quali il soggetto è responsabile - ossia ha voluto - la perdita dell'oggetto d'amore. Questi stati di depressione ossessiva susseguenti alla morte di una persona amata ci mostrano ciò di cui è capace di per sé il conflitto dell'ambivalenza, anche quando non è associato al ritiro regressivo della libido. Nella melanconia, le occasioni che danno luogo allo scoppio della malattia, vanno perlopiù al di là del semplice caso di una perdita dovuta alla morte, e si estendono a tutti quei casi di mortificazione, di sensazione di aver subito un torto, di delusione, che o generano un contrasto fra l'amore e l'odio o possono rafforzare un'ambivalenza già esistente. Fra i presupposti della melanconia non va trascurato questo conflitto dovuto all'ambivalenza, di origine ora piu' realistica, ora piu' determinata da fattori costituzionali. Quando l'amore per un oggetto si è rifugiato nell'identificazione narcisistica - ma si tratta di un amore a cui non si può rinunciare nonostante si sia rinunciato all'oggetto stesso - accade che l'odio si metta all'opera contro questo oggetto sostitutivo oltraggiandolo, denigrandolo, facendolo soffrire e derivando da questa sofferenza un sadico soddisfacimento. L'autotormentarsi del melanconico, certamente foriero di godimento, significa, proprio come il fenomeno corrispondente della nevrosi ossessiva, il soddisfacimento di tendenze sadiche o di odio; tali tendenze si riferiscono a un determinato oggetto e hanno trovato il modo di applicarsi alla persona stessa del soggetto nel modo che abbiamo enunciato. Comunque, in entrambe queste affezioni, i malati riescono abitualmente a prendersi le loro rivincite (per la via indiretta dell'autopunizione) sugli oggetti originari, e a tormentare i loro cari per il tramite della malattia nella quale si sono rifugiati onde non dover manifestare direttamente la propria ostilità. Va detto infatti che la persona che ha suscitato il perturbamento emotivo del malato, e in relazione alla quale è orientata la sua sofferenza, si trova in generale fra coloro che a lui sono più vicini. In tal modo l'investimento amoroso del melanconico per il suo oggetto incorre in un duplice destino: una parte regredisce all'identificazione mentre l'altra parte è riportata, sotto l'influsso del conflitto d'ambivalenza, fino allo stadio del sadismo che a quel conflitto è più vicino.
Solo questo sadismo ci spiega l'enigmatica inclinazione al suicidio che rende così interessante la melanconia, e la fa diventare così pericolosa. Tanto enorme è l'amore che l'lo porta a sé stesso, amore nel quale abbiamo individuato la condizione originaria da cui deriva la vita pulsionale, e talmente spropositato è l'importo di libido narcisistica che vediamo sprigionarsi nell'angoscia di fronte a tutto ciò che minaccia l'esistenza dell'Io, che non riusciamo a capacitarci che questo Io possa consentire alla propria distruzione. È ben vero, e lo sappiamo da tempo, che non esiste nevrotico i cui propositi suicidi non si siano determinati a partire da impulsi omicidi diretti su qualche altra persona; tuttavia non riusciamo a capire attraverso quale giuoco di forze tale proposito possa tradursi in atto. Ebbene, l'analisi della melanconia ci insegna che l'Io può uccidersi solo quando, grazie al ritorno dell'investimento oggettuale, riesce a trattare sé stesso come un oggetto, quando può dirigere contro di sé l'ostilità che riguarda un oggetto e che rappresenta la reazione originaria dell'Io rispetto agli oggetti del mondo esterno. Così, nella regressione che parte da una scelta oggettuale di tipo narcisistico è avvenuta certamente una rinuncia all'oggetto, il quale si è rivelato però più forte dell'lo stesso. Nelle due situazioni opposte dell'innamoramento più intenso e del suicidio l'Io è sopraffatto dall'oggetto, seppure in guise completamente differenti.
… La melanconia ci pone di fronte ad altri interrogativi ancora, la cui risposta in parte ci sfugge. Essa condivide con il lutto la peculiarità di risolversi dopo un certo periodo di tempo, senza lasciare dietro di sé alterazioni consistenti e accertabili. A proposito del lutto abbiamo scoperto che è necessario un certo lasso di tempo affinché l'imperativo dell'esame di realtà possa imporsi in tutto e per tutto; e che, quando quest'opera è terminata, l'Io può ridisporre della libido liberatasi dall'oggetto perduto. Possiamo suppore che nella melanconia l'Io sia occupato in un lavoro analogo, anche se, né in questo caso né in quello del lutto, riusciamo a comprendere il significato economico di tali eventi. L'insonnia tipica della melanconia testimonia la rigidità di questa malattia, l'impossibilità di effettuare quel ritiro generalizzato degli investimenti che è necessario affinché si instauri il sonno. Il complesso melanconico si comporta come una ferita aperta che attira su di sé da tutte le parti energie di investimento (energie che nelle nevrosi di traslazione abbiamo chiamato "controinvestimenti") e svuota l'Io fino all'impoverimento totale; tale complesso può facilmente dimostrarsi refrattario al desiderio di dormire proprio dell'Io.
… La caratteristica più singolare della melanconia, e quella che più di tutte necessita di una spiegazione, è la sua tendenza a convertirsi in mania, stato ad essa opposto dal punto di vista dei sintomi. …
… nella mania l'Io dev'essere riuscito a superare la perdita dell'oggetto (o il lutto per tale perdita o magari l'oggetto in sé), e ora tutto l'ammontare di controinvestimenti che la dolorosa sofferenza della melanconia aveva attinto dall'Io per attrarlo e vincolarlo a sé si rende nuovamente disponibile. Il maniaco ci dimostra inequivocabilmente di essersi liberato dell'oggetto che lo aveva fatto soffrire anche perché si getta come un affamato alla ricerca di nuovi investimenti oggettuali.
…Va detto subito che anche il normale lutto supera la perdita dell'oggetto e, finché dura, assorbe anch'esso tutte le energie dell'Io. Perché dunque, esauritosi il lutto, non si verifica neppure lontanamente la condizione necessaria all'instaurarsi di una fase di trionfo? Reputo impossibile dare una risposta immediata a questa obiezione. Grazie ad essa ci rendiamo conto di non riuscire neppure a indicare i procedimenti economici con cui il lutto porta a termine il proprio compito; tuttavia una congettura potrà forse servirci in questo frangente. In relazione a ciascuno dei ricordi e delle aspettative che dimostrano il legame della libido con l'oggetto perduto, la realtà pronuncia il verdetto che l'oggetto non esiste più, e l'lo, quasi fosse posto dinanzi all'alternativa se condividere o meno questo destino, si lascia persuadere - dalla somma dei soddisfacimenti narcisistici - a rimanere in vita, a sciogliere il proprio legame con l'oggetto annientato. Possiamo forse supporre che quest'opera di distacco proceda in modo talmente lento e graduale che, una volta espletata, anche la quantità di energia psichica necessaria a realizzarla si sia esaurita.
… Tuttavia, come abbiamo udito, la melanconia contiene qualcosa in più del normale lutto. Nella melanconia non è facile la relazione nei confronti dell'oggetto, che viene complicata dal conflitto dell'ambivalenza. L'ambivalenza può essere costituzionale, cioè propria di ogni relazione amorosa vissuta dall'Io, o può invece svilupparsi precisamente da quelle esperienze che implicano una minaccia di perdere l'oggetto. Perciò i motivi occasionali che provocano la melanconia possono estendersi in un ambito assai più vasto che non quelli del lutto, il quale di norma trae origine esclusivamente dalla perdita effettiva dell'oggetto, ovverosia dalla sua morte. Nella melanconia si intessono infatti, intorno all'oggetto, innumerevoli conflitti singoli nei quali infuriano l'uno contro l'altro l'odio e l'amore, l'uno inteso a svincolare la libido dall'oggetto, l'altro inteso a mantenere questa posizione libidica contro l'assalto che le viene mosso. Questi singoli conflitti non possiamo localizzarli in alcun altro sistema se non nell'inconscio, il regno delle tracce mnestiche delle cose (in antitesi con gli investimenti verbali). Proprio in questo sistema si svolgono anche i tentativi di distacco libidico propri del lutto. Ma a proposito di quest'ultimo non esiste alcun impedimento a che tali processi procedano normalmente attraverso il Preconscio per giungere fino alla coscienza. Questa via è invece sbarrata per il lavoro della melanconia, forse per una pluralità di cause o per l'azione congiunta che esse esercitano. L'ambivalenza costituzionale appartiene in sé e per sé al rimosso; gli eventi traumatici esperiti in relazione all'oggetto possono aver attivato altri elementi rimossi. In tal modo tutto ciò che si riferisce a questi conflitti di ambi valenza è sottratto alla coscienza fino a che non compare l'esito caratteristico della melanconia. Come sappiamo esso consiste nel fatto che l'investimento libidico minacciato abbandona finalmente l'oggetto, ma solo per ritirarsi e reinsediarsi nell'Io dal quale era stato esternato. Rifugiandosi nell'Io, l'amore si sottrae così alla dissoluzione. In seguito a questa regressione della libido il processo può diventare cosciente e si presenta al cospetto della coscienza come un conflitto fra una parte dell'Io e l'istanza critica.
Ciò che la coscienza viene a sapere del lavoro melanconico non è quindi l'elemento essenziale, e neppure quello al quale possiamo attribuire una capacità di porre termine alla sofferenza. Noi costatiamo che l'Io si svalorizza e infierisce crudelmente contro sé stesso, e non comprendiamo, come non lo comprende il malato, a qual fine tenda tutto ciò e come possa esser mutato. Possiamo tutt'al più attribuire una funzione di questo genere alla componente inconscia del lavoro melanconico poiché non è difficile rintracciare una analogia fondamentale fra quest'ultimo e il lavoro del lutto. Come il lutto induce l'Io a rinunciare all'oggetto dichiarandolo morto, e offrendo all'Io, in cambio di questa rinuncia, il premio di restare in vita, così ogni singolo conflitto d'ambivalenza allenta la fissazione libidica all'oggetto poiché lo denigra, lo svilisce e, in certo modo, lo distrugge. È possibile che il processo si concluda nell'inc, o dopo che la collera si è esaurita o dopo che l'oggetto è stato abbandonato perché privo di valore. Non sappiamo dire quale di queste due possibilità ponga fine invariabilmente, o con maggiore frequenza, alla melanconia e in che modo questa conclusione incida sull'ulteriore decorso del caso. Può darsi che l'Io provi la soddisfazione di sapersi migliore dell'oggetto, di potersi riconoscere come superiore ad esso.
... Dei tre presupposti della melanconia - perdita dell'oggetto, ambivalenza e regressione della libido nell'Io - i primi due li ritroviamo nei rimproveri ossessivi susseguenti a casi di morte. In questi rimproveri l'ambivalenza rappresenta indubitabilmente la forza motrice del conflitto e l'osservazione permette di costatare che quando esso si risolve non resta nulla che faccia pensare al trionfo di una situazione maniacale. Siamo in tal modo rinviati al terzo presupposto della melanconia come all'unico fattore capace di incidere su ciò che viene dopo. Quell'accumulo di investimenti che dapprima è legato e poi diventa libero quando il lavoro melanconico si è concluso, consentendo lo svilupparsi della mania, deve essere in rapporto con la regressione libidica alla fase del narcisismo. Il conflitto all'interno dell'Io, che nella melanconia prende il posto della lotta riguardo all'oggetto deve agire come una ferita dolorosa che pretende un controinvestimento straordinariamente elevato. Ma a questo punto sarà bene arrestarsi e rinviare la delucidazione ulteriore della mania a quando avremo acquisito una chiara visione della natura psicologica innanzitutto del dolore fisico, e poi del dolore psichico ad esso analogo. ..
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Il lutto è invariabilmente la reazione alla perdita di una persona amata o di un'astrazione che ne ha preso il posto, la patria ad esempio, o la libertà, o un ideale o così via.
Il lutto profondo, ossia la reazione alla perdita di una persona amata, implica lo stesso doloroso stato d'animo, la perdita d'interesse per il mondo esterno - fintantoché esso non richiama alla memoria colui che non c'è più -, la perdita della capacità di scegliere un qualsiasi nuovo oggetto d'amore (che significherebbe rimpiazzare il caro defunto), l'avversione per ogni attività che non si ponga in rapporto con la sua memoria.
Comprendiamo facilmente che questa inibizione e limitazione dell'Io esprime una dedizione esclusiva al lutto che non lascia spazio ad altri propositi e interessi. In verità questo atteggiamento non ci appare patologico soltanto perché lo sappiamo spiegare così bene.
Parimenti appropriato riterremo il raffronto che qualifica lo stato d'animo del lutto come "doloroso". La sua legittimazione ci risulterà presumibilmente più chiara quando saremo in grado di caratterizzare il dolore dal punto di vista economico.
Orbene, in cosa consiste il lavoro svolto dal lutto? Non credo di forzare le cose se lo descrivo nel modo seguente: l'esame di realtà ha dimostrato che l'oggetto amato non c'è più e comincia a esigere che tutta la libido sia ritirata da ciò che è connesso con tale oggetto. Contro tale richiesta si leva un'avversione ben comprensibile; si può infatti osservare invariabilmente che gli uomini non abbandonano volentieri una posizione libidica, neppure quando dispongono già di un sostituto che li inviti a farlo. Questa avversione può essere talmente intensa da sfociare in un estraniamento dalla realtà e in una pertinace adesione all'oggetto, consentita dall'instaurarsi di una psicosi allucinatoria di desiderio. La normalità è che il rispetto della realtà prenda il sopravvento.
Tuttavia questo compito non può esser realizzato immediatamente. Esso può essere portato avanti solo poco per volta e con grande dispendio di tempo e di energia d'investimento; nel frattempo l'esistenza dell'oggetto perduto viene psichicamente prolungata. Tutti i ricordi e le aspettative con riferimento ai quali la libido era legata all'oggetto vengono evocati e sovrainvestiti uno a uno, e il distacco della libido si effettua in relazione a ciascuno di essi. Non è affatto facile indicare con argomentazioni di tipo economico perché tale compromesso con cui viene realizzato poco per volta il comando della realtà risulti così straordinariamente doloroso. Ed è degno di nota che questo dispiacere doloroso ci appaia assolutamente ovvio. Comunque, una volta portato a termine i1 lavoro del lutto, l'Io ridiventa in effetti libero e disinibito.
All'inizio ebbe luogo una scelta oggettuale, un legame della libido a una determinata persona; sotto l'influsso di una reale mortificazione o di una delusione subita dalla persona amata, questa relazione oggettuale fu gravemente turbata. L'esito non fu già quello normale, ossia il ritiro della libido da questo oggetto e il suo spostamento su un nuovo oggetto, ma fu diverso e tale da richiedere, a quanto sembra, più condizioni per potersi produrre. L'investimento oggettuale si dimostrò scarsamente resistente e fu sospeso, ma la libido divenuta libera non fu spostata su un altro oggetto, bensì riportata nell'Io. Qui non trovò però un impiego qualsiasi, ma fu utilizzata per instaurare una identificazione dell'Io con l'oggetto abbandonato. L'ombra dell'oggetto cadde così sull'Io che d'ora in avanti poté esser giudicato da un'istanza particolare come un oggetto, e precisamente come l'oggetto abbandonato. In questo modo la perdita dell'oggetto si era trasformata in una perdita dell'Io, e il conflitto fra l'Io e la persona amata in un dissidio fra l'attività critica dell'Io e l'Io alterato dall'identificazione. Alcuni dei presupposti e dei risultati di un processo di questo genere sono immediatamente individuabili. Se da un lato dev'essere stata presente una forte fissazione all'oggetto d'amore, d'altro lato, invece, l'investimento oggettuale deve aver avuto scarse capacità di resistenza. Secondo una calzante osservazione di Otto Rank questa contraddizione sembra rinviare al fatto che la scelta oggettuale si è attuata su basi narcisistiche, per cui l'investimento oggettuale può regredire al narcisismo se gli si fanno innanzi delle difficoltà. L'identificazione narcisistica con l'oggetto si trasforma poi in un sostituto dell'investimento amoroso; l'esito di ciò è che, nonostante il conflitto con la persona amata, non è necessario abbandonare la relazione d'amore. Una sostituzione di questo genere dell'amore oggettuale con un'identificazione costituisce un importante meccanismo delle affezioni narcisistiche. Esso corrisponde ovviamente alla regressione da un tipo di scelta oggettuale al narcisismo originario.
Abbiamo dimostrato altrove che l'identificazione è la fase preliminare della scelta oggettuale, e che essa è il primo modo, peraltro ambivalente nella sua espressione, con cui l'Io evidenzia un oggetto. L'Io vorrebbe incorporare in sé tale oggetto e, data la fase orale o cannibalesca della propria evoluzione libidica, vorrebbe incorporarlo divorandolo. Abraham è certamente nel giusto quando ricorre a questo nesso per spiegare il rifiuto di nutrirsi che compare nelle forme gravi di melanconia.
I motivi della malattia spesso cominciano ad agire fin dall'infanzia: una bambina desiderosa d'amore non si accontenta di dividere l'affetto dei genitori con le sorelle e i fratelli, e ha scoperto di essere il solo oggetto del loro affetto quando stimola la loro preoccupazione per la sua salute. Con la malattia, scopre un metodo per adescare e sollecitare l'amore dei suoi genitori, e se ne servirà ogni volta che avrà a propria disposizione materiale psichico sufficiente alla simulazione di un disturbo. Quando una bambina come questa sarà divenuta donna, potrà trovare tutte le esigenze già appartenenti alla sua infanzia contrariate, mettiamo, da un matrimonio sbagliato, con un uomo che la voglia tenere soggiogata, che sfrutti senza pietà le sue capacità lavorative e non le dia né affetto né denaro. In un caso come questo, la malattia sarà per lei un ottimo sistema per mantenere le sue posizioni: le procurerà le attenzioni di cui ha bisogno; costringerà il marito a fare dei sacrifici economici per lei e a mostrarsi interessato alle sue condizioni, cosa che non aveva mai fatto quando stava bene; lo costringerà perfino a trattarla bene quando sarà guarita, pena ricaduta.
Detto questo il suicidio può avere due moventi.
Di tipo narcisistico e di tipo sociale. Come diceva Rasputin con gli Inuit.
Mentre il secondo è tipicamente dimostrativo, altruistico, in cui il "Se" del suicidario si annulla con il "Se" del gruppo di appartenenza e pertanto la funzione dell'io come stimolo di autoconservazione viene meno in quanto sublimato a livello più alto (gruppo,clan, etnia, nazione, ecc.), il restante è sempre richiesta di attenzioni.
Attenzioni di amore, che egli non ha avuto o ha perso. Di solito sono tentativi suicidari,ma l'odio profondo radicato per ciò che non può essere colpito ( come la madre dell'anoressica,in cui l'immagine viene interiorizzata,ed è per questo che la terapia è l'allontanamento dal nucleo familiare) viene interiorizzato. Uccidendo me,uccido chi mi fa soffrire, con la sua assenza. è questo il meccanismo del suicidio patologico.
Di chi è solo. Di chi soffre in silenzio. Di chi la società emargina.
Spero mi sia spiegato ora.
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klaus54- -------------
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
klaus54 ha scritto:Rasputin ha scritto:klaus54 ha scritto:
Il suicidio è la forma più alta di narcisismo egocentrico. In realtà è un transfert del cosiddetto "oggetto d'amore perduto". l'oggetto perduto viene internalizzato e l'odio, non proiettabile per vari motivi su tale oggetto,viene incanalato verso se stessi. è lo stesso principio neuropsichiatrico che sottende l'anoressia o il disturbo borderline di personalità (questo con altri caratteri,ma è simile).
Cazzate. Il suicidio, quello vero - razionale - è la forma più alta di autodeterminazione, ed in alcuni casi di salvaguardia del gruppo sociale (Vedi Inuit).
Mi spiace contraddirti.Ma quello che definisci cazzate è scienza.
Insegno neurofisiologia,se può interessarti. Hai sempre la risposta pronta.Cazzate.Boiate.
Si vede che tu hai sempre una marcia in più di tutto ciò che si sa.Modesto.
Klaus tu restringi il discorso al suicidio patologico. Può costituire la maggioranza dei casi, ma non è l'unico (VEDI INUIT).
Rasputin- ..............
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
Klaus ha scritto:Detto questo il suicidio può avere due moventi.
Di tipo narcisistico e di tipo sociale. Come diceva Rasputin con gli Inuit.
Mentre il secondo è tipicamente dimostrativo, altruistico, in cui il "Se" del suicidario si annulla con il "Se" del gruppo di appartenenza e pertanto la funzione dell'io come stimolo di autoconservazione viene meno in quanto sublimato a livello più alto (gruppo,clan, etnia, nazione, ecc.), il restante è sempre richiesta di attenzioni.
Attenzioni di amore, che egli non ha avuto o ha perso. Di solito sono tentativi suicidari,ma l'odio profondo radicato per ciò che non può essere colpito ( come la madre dell'anoressica,in cui l'immagine viene interiorizzata,ed è per questo che la terapia è l'allontanamento dal nucleo familiare) viene interiorizzato. Uccidendo me,uccido chi mi fa soffrire, con la sua assenza. è questo il meccanismo del suicidio patologico.
Di chi è solo. Di chi soffre in silenzio. Di chi la società emargina.
Spero mi sia spiegato ora.
Read more: http://atei.forumitalian.com/t4663p90-non-fare-agli-altri-cio-che-non-vorresti-fosse-fatto-a-te#ixzz2GQHjxYbI
La mia base culturale (spero di non essere solo) non collega il suicidio di Narcisio a tutti i suicidi - poi ammetti quello sociale dalla battuta del Raspa - ma vorrei dire dell'altro.
Se ogni evento impilato nella nostra coscienza ha una relazione con l'imprinting della madre partendo dal complesso di Edipo, sospetto che si tratta di "normalità", compresa la "deviazione" che sfocia quel 10-20% di froci. Quando si dice dell'importanza del rapporto materno durante l'infanzia è poco effettivamente.
Torno alle banalità.
Se è riconosciuto l'istinto della sopravvivenza allora esistiamo per quello (non i 7000000000 che siamo oggi, per favore). Se la lotta per sopravvivere è nemica del suicidio allora oggi che siamo così tanti qualcuno potrebbe effettivamente farlo (la densità di popolazione relativamente agli Inuit forse, dico forse, lo indica).
Essere liberi di suicidarsi vuol dire non aver impegni con le persone a cui si vuole bene e se non c'è nessuno a cui voler bene e non si ha sufficiente stima di se (Narcisio ora che lo dici) può valere la pena togliersi dalle balle.
Ipnosi ed erotismo, Klaus... ipnosi e tentazioni tutte...
http://atei.forumitalian.com/t4663p80-non-fare-agli-altri-cio-che-non-vorresti-fosse-fatto-a-te#194098
La mia perplessità sul tuo pensiero relativamente al perdono...
http://atei.forumitalian.com/t4663p80-non-fare-agli-altri-cio-che-non-vorresti-fosse-fatto-a-te#194091
Ovvero dire che una cosa sia ammirabile non implica che sia fattibile, dico come regola sociale.
SergioAD- -------------
- Numero di messaggi : 6906
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Data d'iscrizione : 30.01.10
Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
klaus54 ha scritto:
... questo concetto dualistico implica la separazione fra un agente perdonante ( buono- vittima- angioletto) e un ricevente perdonato (cattivo, carnefice- diavoletto- pentito), un soggetto e un oggetto. Inoltre è intimamente connesso al concetto di peccato. Concetto, evidentemente di origine cristiana. Che in parte impregna anche chi non lo è ma che è investito sin dall'infanzia da questo pensiero.
Da canto mio preferisco parlare di compassione e di risposta al perdono con gesti esattamente contrari all'offesa.
In un bel passo del Ivuttaka, si dice:
"Il Beato osservò il comportamento della società e notò come molta infelicità derivasse da malignità e da sciocche offese, fatte soltanto per compiacere la vanità e per orgoglio personale.
E il Buddha disse: " Se un uomo stupidamente mi fa del male, gli restituirò la protezione del mio amore senza risentimento; più male mi viene da lui, più bene andrà da me a lui; la fragranza della bontà torna sempre a me, e l'aria nociva del male va a lui". Uno stupido, sapendo che il Buddha osservava il principio del grande amore, che raccomanda la restituzione del bene per il male ricevuto, andò e lo offese.
Il Buddha rimase silenzioso, sentendo pietà per la sua stoltezza. Quando l'uomo ebbe finito di insultare, il Buddha gli chiese: " Figlio, se un uomo rifiutasse di accettare un dono che gli vien fatto, a chi apparterrebbe esso?" E quello rispose: " In quel caso apparterrebbe all'uomo che lo offriva".
" Figlio mio, disse il Buddha tu mi hai rivolto un linguaggio offensivo, ma io rifiuto di accettare la tua offesa, e ti chiedo di tenerla per te. Non sarà essa per te una fonte di infelicità? Come l'eco appartiene al suono, e l'ombra alla sostanza, così l'infelicità ricadrà senza dubbio su colui che fa il male".
L'offensore non rispose e il Buddha continuò: " Un uomo malvagio che rimprovera un virtuoso è come colui che guarda in alto e sputa contro il cielo; lo sputo non insozza il cielo, ma torna in giù e insozza la sua persona. L'uomo virtuoso non può essere danneggiato, e l'infelicità che l'altro vorrebbe infliggergli ricade su di lui".
Il pensiero del perdono va a braccetto con la vendetta. Se si abbandona il pensiero negativo di quest'ultimo (che rode dentro chi ha subito il torto, non chi ha perpetrato l'offesa), si riesce anche a superare il concetto di perdono. Come ogni cosa, tutto è passeggero.
Buona serata.
splendido
che libro è lo Ivuttaka?
hai qualche informazione in più da darmi che mi interessa?
credo che uno dei memi del religioso sia legato a questo atteggiamento di non competizione-sopruso verso il prossimo, ma di rispetto, compassione, condivisione, comunità... di non considerarsi individuo contro il mondo e la natura, ma parte di un tutto.
in questo credo che il religioso abbia ancora molto da dire per "ostacolare" "l'homo homini lupus", "il tutto contro tutti, perchè ciascuno per il proprio interesse"
bello
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Masada- -----------
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Re: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te
SergioAD ha scritto:
Ovvero dire che una cosa sia ammirabile non implica che sia fattibile, dico come regola sociale.
E' si, comunque credo sia più una direzione, modalità di interazione, approccio, piuttosto che qualcosa da vivere letteralmente, che sarebbe impossibile e pure sbagliato perchè un ragazzetto che si comportasse così coi bulli alle medie o alle superiori subirebbe di quei traumi fisici e psicologici da fargli proprio male!
letteralmente magari la prova a vivere solo il santo o il monaco...
che poi si permette di scrivere nuove massime ammirabili ma non fattibili degli estremi che lui ha vissuto.
___________________
Masada- -----------
- Numero di messaggi : 1558
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