Scienza... quella vera
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Scienza... quella vera
ARTICOLO LUNGO MA MOLTO INTERESSANTE:
Massimo Sandal, 29 anni, laureato in biotecnologie industriali all’Università di Bologna e attualmente ricercatore a Cambridge in Inghilterra – si era parlato del suo lavoro sul morbo di Parkinson tre anni fa – ha scritto dieci giorni fa sul suo blog un lungo post in inglese sulle frustrazioni del lavoro nella ricerca scientifica. Si concludeva con un’annunciata intenzione di “riprendersi la vita” e ha avuto nei giorni seguenti una notevolissima circolazione e discussione in rete (Sandal è tornato sull’inattesa dimensione del dibattito qualche giorno dopo). Il Post gli ha chiesto di spiegare ai profani quali siano le ragioni di tanta sensibilità ai temi della vita dei ricercatori.
Molti guardano la ricerca scientifica dall’esterno, come fosse una torre d’avorio in cui personaggi dal cranio rigonfio di materia grigia discutono con apollinea serenità i misteri dell’universo. Chi vede la cosa da fuori cosa vede? Quando va bene, professori sorridenti che spiegano la nuova (possibile) cura per il cancro, che commentano le ultime foto di Hubble o il riscaldamento globale. L’impressione che danno i media è quella di un mondo di mattacchioni che discutono serenamente di bosoni, scioglimento dei ghiacci e DNA, senza nessun’altra preoccupazione al mondo.
Sono fesserie. Chi fa ricerca giorno dopo giorno non sono i professori (che hanno un ruolo fondamentale, per carità: ma più di guida, networking e fundraising che altro). Sono i giovani: i dottorandi e i cosiddetti “postdoc” (ricercatori post-dottorali, che hanno un titolo di dottorato ma che non lavorano ancora indipendentemente). Costoro, benché anonimi, sono quelli che fanno tutto il lavoro vero e proprio e sono alla base di una piramide, e questo di per sé sarebbe normale (le gerarchie sono ovunque, di operai ce ne sono tanti e di Marchionne uno solo). Il problema è che si tratta di una piramide su cui non puoi mai fermarti: devi scalarla o perire.
Mi spiego meglio. Se io entro in FIAT per fare l’operaio o l’impiegato, è probabile che io possa rimanere in eterno a fare l’operaio o l’impiegato. Nessuno (che io sappia: potrei sbagliarmi) mi obbliga a fare carriera per diventare dirigente. Nella scienza invece tu non puoi rimanere a fare il ricercatore ad libitum.
La carriera funziona così. Quando uno inizia il dottorato, neolaureato, inizia a fare ricerca vera e propria. Fa esperimenti, calcoli, ipotesi, teorie eccetera: tutto quello che ci si aspetta faccia uno scienziato, magari sotto l’occhio vigile di un dottorando più vecchio o di un postdoc.
Alla fine se tutto va bene il nostro dottorando, dopo tre-quattro anni (o anche più fuori dall’Italia) vissuti chiuso in un laboratorio, rinunciando alle serate e ai weekend, grottescamente malpagato, senza la minima rappresentanza professionale a difendere i suoi inesistenti diritti, avrà realizzato un paio di lavori scientificamente dignitosi, e li avrà pubblicati su una rivista scientifica “peer reviewed”.
Se il suo capo non è un totale figlio di buona donna, avrà avuto riconosciuto il suo lavoro con il primo nome nella lista degli autori: una finezza che significa tutto (avere articoli come primo autore è conditio sine qua non per qualsiasi progresso di carriera; uscire dal dottorato senza un “first-author paper” significa una quasi certa condanna a morte accademica. Avere il primo nome significa che il lavoro “è tuo”, gli altri nomi sono collaboratori secondari o supervisori. E no, non esiste nessun meccanismo di controllo: tutto sta alla correttezza del proprio supervisore. Se il tuo supervisore vuole far andare avanti qualcun altro e non te, il primo nome te lo puoi scordare, anche se hai fatto tutto il lavoro da solo. Non capita spessissimo, ma capita).
A questo punto il dottorando, ora dottorato, dovrà fare la via crucis del postdottorato. Ovvero, lavorare per vari anni in 2, 3, 4 laboratori, 2-3 anni alla volta, finché non si sia fatto un curriculum abbastanza robusto per il passo successivo. Ma mentre durante il dottorato viene pagato in qualche modo dall’università, dopo il dottorato è spesso necessario (anche se non sempre: ma nei posti più prestigiosi è pratica comune) reperirsi da soli i fondi per pagare il proprio stipendio.
La competizione per tali fondi è spietata, e diventa sempre più spietata man mano che si prosegue. Il motivo è semplice: le agenzie che danno i fondi (in generale si tratta di agenzie internazionali o nazionali di natura governativa, oppure di fondi privati o derivati da donazioni, come Telethon in Italia, o il Wellcome Trust in Inghilterra) di norma non finanziano più del 20% delle application che ricevono, e spesso ne finanziano intorno al 5%. Inoltre fare tali application comporta un’enorme perdita di tempo: non si tratta semplicemente di inviare un curriculum e una lettera, ma di scrivere papiri di 10-40 pagine in cui devi convincere un panel di revisori su ogni aspetto della tua ricerca, in cui devi limare ogni parola perché il tuo progetto sia realistico, brillante, convincente. Insomma, devi fare marketing: ma invece che con uno slogan lo devi fare con dozzine di pagine di pubblicità. Aggiungete che, per avere delle speranze, devi fare domanda a numerose agenzie alla volta, e capite che circa il 40% del tempo di molti ricercatori è speso soltanto a fare domande di fondi. Ovviamente le possibilità di avere fondi dipendono essenzialmente dal proprio curriculum, ovvero dalle pubblicazioni (specie come primo autore).
Tali fondi, qualora vinti, sono a termine (quasi mai durano più di tre anni, spesso due) e quindi praticamente ogni anno uno fa nuove domande per garantirsi i prossimi due anni di stipendio. Ed ecco che qui arriva il nodo: tutte le agenzie di fondi che danno soldi per postdoc pongono dei limiti di età o di esperienza. In pratica, raggiunti i 35 anni avere una borsa per postdoc inizia a diventare impossibile. C’è solo un’alternativa: sperare di trovare una posizione come ricercatore indipendente, diventare in altre parole un giovane “group leader” e iniziare a coordinare il lavoro altrui.
La competizione a questo punto diventa spaventosa. A essere ottimisti, il 10% dei postdoc può sperare di raggiungere una “tenure track” (ovvero quel percorso in cui sei un group leader “in prova”, per un periodo di solito sui 5 anni). Fermiamoci un attimo e ricapitoliamo cosa significa quanto detto:
1) La grande maggioranza degli esperimenti scientifici nel mondo è fatta da gente sotto i 35 anni, grottescamente sottopagata (specie in Italia, ma non solo) e priva di qualsiasi riconoscimento di tipo “sindacale”. Nel caso della ricerca i giovani non sono il futuro: sono il presente. La ricerca scientifica mondiale è letteralmente in mano (provette, computer e strumenti) a migliaia di ragazzi che rinunciano a vita, stipendio e carriere lucrose (se un giovane biologo brillante fresco di laurea o dottorato va all’estero e prova a lavorare nell’industria, le chance di trovarsi all’estero a fare il ricercatore nel privato sono piuttosto alte, e il trattamento economico e sociale decisamente più alto) per una passione, senza ricevere quasi nulla in cambio.
2) La ricerca scientifica funziona come un’azienda che sostituisse tutto il suo dipartimento ricerca e sviluppo ogni dieci anni. Non so se questo sia normale, ma mi colpisce sempre: è come se uno buttasse via tutti gli ingegneri in una azienda tecnologica e ne riassumesse di nuovi, neolaureati, ogni 10 anni, a parte i pochissimi che diventano dirigenti.
3) La competizione a livello postdottorale fa sì che, specie nelle istituzioni più prestigiose, si creino facilmente situazioni estremamente tossiche. Scordatevi una platonica torre d’avorio. Significa che la gente sabota regolarmente il lavoro altrui, fa di tutto per accaparrarsi il credito di lavoro a cui ha partecipato poco o nulla, e altro che condivisione delle conoscenze: ognuno tiene i propri progetti praticamente secretati nel terrore che gli vengano rubati dalla concorrenza. Aggiungete il fatto noto che questo conduce sempre piú ricercatori (una piccola minoranza, per fortuna, ma in crescita) a darsi alla frode scientifica pur di sopravvivere: si parte da casi in cui semplicemente si riducono i controlli, o si scopiazzano articoli da una parte all’altra, a storie eclatanti in cui si inventano dati di sana pianta per garantirsi il successo.
Nota generale: “competitivo” non significa necessariamente “meritocratico”. Spesso le due parole vengono considerate sinonimi. La cosa andrebbe tenuta bene in mente da chi chiede più “competitivita`” nella ricerca italiana. La ricerca italiana dev’essere più meritocratica, non più competitiva. Si compete già, in Italia, solo che non si fa in base al merito.
4) Intorno ai 30-35 anni abbiamo numerose persone con un curriculum buono o anche brillante che hanno fatto scienza tutta la vita e si trovano improvvisamente in mezzo alla strada, “overqualificati” per moltissimi lavori, e viceversa non qualificati per molti altri. Ci sono aziende che hanno come politica esplicita quella di non assumere persone con un dottorato o un postdoc perché ormai troppo slegati dalla “realtà”. Queste persone sono intorno al 70-90% di quelle che hanno iniziato una carriera accademica.
5) Il fatto che tutto giri intorno alle pubblicazioni e alle esigenze delle agenzie di funding, aggiunto al fatto che la ricerca scientifica è sempre una scommessa, fa sì che attualmente la ricerca scientifica sia in una spirale che la rende sempre meno coraggiosa, sempre più applicata e sempre più dipendente dalle politiche delle agenzie. In campio biologico è pressoché impossibile avere fondi se non si hanno chiare e immediate ricadute mediche o industriali della propria ricerca. Charles Darwin oggi non riceverebbe un soldo da un’agenzia di funding. Inoltre, tutti i postdoc tendono a cercare progetti più “sicuri”, a scavarsi piccole nicchie in cui sono certi di ottenere qualcosa, anche di piccolo, invece di tentare di imparare tecniche e discipline nuove, o di dedicarsi a esperimenti più coraggiosi, perché questo è quasi sempre solo un modo per suicidare la propria carriera.
Torniamo al nostro ex-dottorando ed ex-postdoc. Mettiamo che sia stato molto bravo, che abbia sgomitato il dovuto e che abbia vinto una tenure track. Questo cosa gli da? Cinque anni in cui avrà raggiunto l’indipendenza accademica, gestirà un progetto “suo” (purché piaccia a chi gli da i soldi) e in cui magari ha un paio di dottorandi a lavorare per lui. Bellissimo. Peccato che gli serviranno ancora soldi per pagare il laboratorio, la strumentazione, eccetera, e quindi dovrà fare ancora altre domande ad altre agenzie. Lo stesso ciclo di prima, eterno, solo peggiorato: ora la grande maggioranza del suo tempo sarà spesa a fare marketing della ricerca (che il ricercatore guida ma che fanno i suoi dottorandi) e sempre meno alla scienza vera e propria. Inoltre l’università gli fa pressione, perché a questo punto i grant che ottiene servono anche a finanziare il dipartimento stesso, non solo lui. E anche qui, non vincono tutti: una buona metà se ne torna a casa dopo cinque anni. A questo punto il ricercatore ha 40 anni, ha fatto ricerca tutta la vita (anche se negli ultimi 5 ha fatto più che altro fundraising), e maledettamente sovraqualificato e maledettamente troppo vecchio per trovare facilmente lavoro.
Si è mangiato la vita: non ha mai avuto un weekend libero, non si è mai liberato dal suo lavoro (la ricerca è un lavoro che divora, da cui non stacchi mai, a livello mentale), ha subito probabilmente mobbing e scorrettezze da numerosi colleghi, ha forse rinunciato o quantomeno messo in secondo piano famiglia e figli, non ha mai avuto una stabilità economica o geografica (molti ricercatori cambiano Stato 2, 3, 4 volte nella vita, spesso anche di più), ha dovuto conquistare tutto palmo a palmo, per cosa? Per ritrovarsi a 30, 35, 40 anni con in mano un pugno di mosche e qualche oscura pubblicazione, quasi certamente persa in un mare magnum di mille altre.
La torre d’avorio dell’accademia è solo la parte che si vede. Sotto terra, sotto la torre, brulica un sottosuolo di giovani brillanti, fortissimi lavoratori e tenaci sognatori ma il cui futuro è una lotteria, una mera illusione. Ovviamente chi vive nella torre d’avorio (cioè chi ha raggiunto finalmente un posto stabile come professore universitario) ha tutto l’interesse a mantenere lo status quo, o anzi ad aumentare a dismisura il numero di dottorandi e postdottorati: manovalanza a carico dell’università o delle agenzie esterne di funding; cervelli e mani che fanno tutto il reale lavoro di ricerca, e che è sempre sostituibile, pronta a essere buttata via e rimpiazzata nel giro di pochi anni.
Quello che ho raccontato nasce naturalmente dalla mia esperienza; ci sono ovviamente eccezioni e c’è ovviamente il dritto della medaglia. C’è lo stimolo psicologico, ovvero il fatto che spesso chi fa ricerca ha sempre sognato di farla e la cui personalità è in qualche modo dipendente/definita da questa realizzazione professionale. Significa da una parte che spesso è un mestiere a livello psicologico totalizzante, in cui si entra per vocazione spesso fin dall’infanzia, per spirito di conoscenza – e che quindi finisce per definire la tua persona; trovarsi di fronte alle dighe poste sul cammino della ricerca è spesso enormemente frustrante e infine, quando ci si trova costretti a cambiare cammino, la sensazione di aver fallito nella propria vita è ben più profonda di quanto normalmente sia per un altro tipo di carriera. Ma fare scienza è anche suo modo un mestiere meraviglioso, in cui sai di portare avanti, nel tuo piccolo, la gigantesca impresa dell’umanità di comprendere il mondo in cui vive e, alla fine, te stesso. La libertà intellettuale può essere inebriante. Forse troppo inebriante: forse gli scienziati riflettono troppo sui loro progetti e troppo poco sul sistema che li mantiene, li porta avanti per qualche anno e alla fine in tanti casi li getta via. Se mi chiedete quali sono le vie di uscita da questo gioco al massacro, io non so dare una risposta. Ma gli scienziati, e la società di cui fanno parte, dovrebbero chiedersi se questo è veramente l’unico modo di mandare avanti la ricerca. Non solo per gli scienziati stessi, ma per tutti.
http://www.ilpost.it/2011/02/28/sulla-ricerca-scientifica/
Massimo Sandal, 29 anni, laureato in biotecnologie industriali all’Università di Bologna e attualmente ricercatore a Cambridge in Inghilterra – si era parlato del suo lavoro sul morbo di Parkinson tre anni fa – ha scritto dieci giorni fa sul suo blog un lungo post in inglese sulle frustrazioni del lavoro nella ricerca scientifica. Si concludeva con un’annunciata intenzione di “riprendersi la vita” e ha avuto nei giorni seguenti una notevolissima circolazione e discussione in rete (Sandal è tornato sull’inattesa dimensione del dibattito qualche giorno dopo). Il Post gli ha chiesto di spiegare ai profani quali siano le ragioni di tanta sensibilità ai temi della vita dei ricercatori.
Molti guardano la ricerca scientifica dall’esterno, come fosse una torre d’avorio in cui personaggi dal cranio rigonfio di materia grigia discutono con apollinea serenità i misteri dell’universo. Chi vede la cosa da fuori cosa vede? Quando va bene, professori sorridenti che spiegano la nuova (possibile) cura per il cancro, che commentano le ultime foto di Hubble o il riscaldamento globale. L’impressione che danno i media è quella di un mondo di mattacchioni che discutono serenamente di bosoni, scioglimento dei ghiacci e DNA, senza nessun’altra preoccupazione al mondo.
Sono fesserie. Chi fa ricerca giorno dopo giorno non sono i professori (che hanno un ruolo fondamentale, per carità: ma più di guida, networking e fundraising che altro). Sono i giovani: i dottorandi e i cosiddetti “postdoc” (ricercatori post-dottorali, che hanno un titolo di dottorato ma che non lavorano ancora indipendentemente). Costoro, benché anonimi, sono quelli che fanno tutto il lavoro vero e proprio e sono alla base di una piramide, e questo di per sé sarebbe normale (le gerarchie sono ovunque, di operai ce ne sono tanti e di Marchionne uno solo). Il problema è che si tratta di una piramide su cui non puoi mai fermarti: devi scalarla o perire.
Mi spiego meglio. Se io entro in FIAT per fare l’operaio o l’impiegato, è probabile che io possa rimanere in eterno a fare l’operaio o l’impiegato. Nessuno (che io sappia: potrei sbagliarmi) mi obbliga a fare carriera per diventare dirigente. Nella scienza invece tu non puoi rimanere a fare il ricercatore ad libitum.
La carriera funziona così. Quando uno inizia il dottorato, neolaureato, inizia a fare ricerca vera e propria. Fa esperimenti, calcoli, ipotesi, teorie eccetera: tutto quello che ci si aspetta faccia uno scienziato, magari sotto l’occhio vigile di un dottorando più vecchio o di un postdoc.
Alla fine se tutto va bene il nostro dottorando, dopo tre-quattro anni (o anche più fuori dall’Italia) vissuti chiuso in un laboratorio, rinunciando alle serate e ai weekend, grottescamente malpagato, senza la minima rappresentanza professionale a difendere i suoi inesistenti diritti, avrà realizzato un paio di lavori scientificamente dignitosi, e li avrà pubblicati su una rivista scientifica “peer reviewed”.
Se il suo capo non è un totale figlio di buona donna, avrà avuto riconosciuto il suo lavoro con il primo nome nella lista degli autori: una finezza che significa tutto (avere articoli come primo autore è conditio sine qua non per qualsiasi progresso di carriera; uscire dal dottorato senza un “first-author paper” significa una quasi certa condanna a morte accademica. Avere il primo nome significa che il lavoro “è tuo”, gli altri nomi sono collaboratori secondari o supervisori. E no, non esiste nessun meccanismo di controllo: tutto sta alla correttezza del proprio supervisore. Se il tuo supervisore vuole far andare avanti qualcun altro e non te, il primo nome te lo puoi scordare, anche se hai fatto tutto il lavoro da solo. Non capita spessissimo, ma capita).
A questo punto il dottorando, ora dottorato, dovrà fare la via crucis del postdottorato. Ovvero, lavorare per vari anni in 2, 3, 4 laboratori, 2-3 anni alla volta, finché non si sia fatto un curriculum abbastanza robusto per il passo successivo. Ma mentre durante il dottorato viene pagato in qualche modo dall’università, dopo il dottorato è spesso necessario (anche se non sempre: ma nei posti più prestigiosi è pratica comune) reperirsi da soli i fondi per pagare il proprio stipendio.
La competizione per tali fondi è spietata, e diventa sempre più spietata man mano che si prosegue. Il motivo è semplice: le agenzie che danno i fondi (in generale si tratta di agenzie internazionali o nazionali di natura governativa, oppure di fondi privati o derivati da donazioni, come Telethon in Italia, o il Wellcome Trust in Inghilterra) di norma non finanziano più del 20% delle application che ricevono, e spesso ne finanziano intorno al 5%. Inoltre fare tali application comporta un’enorme perdita di tempo: non si tratta semplicemente di inviare un curriculum e una lettera, ma di scrivere papiri di 10-40 pagine in cui devi convincere un panel di revisori su ogni aspetto della tua ricerca, in cui devi limare ogni parola perché il tuo progetto sia realistico, brillante, convincente. Insomma, devi fare marketing: ma invece che con uno slogan lo devi fare con dozzine di pagine di pubblicità. Aggiungete che, per avere delle speranze, devi fare domanda a numerose agenzie alla volta, e capite che circa il 40% del tempo di molti ricercatori è speso soltanto a fare domande di fondi. Ovviamente le possibilità di avere fondi dipendono essenzialmente dal proprio curriculum, ovvero dalle pubblicazioni (specie come primo autore).
Tali fondi, qualora vinti, sono a termine (quasi mai durano più di tre anni, spesso due) e quindi praticamente ogni anno uno fa nuove domande per garantirsi i prossimi due anni di stipendio. Ed ecco che qui arriva il nodo: tutte le agenzie di fondi che danno soldi per postdoc pongono dei limiti di età o di esperienza. In pratica, raggiunti i 35 anni avere una borsa per postdoc inizia a diventare impossibile. C’è solo un’alternativa: sperare di trovare una posizione come ricercatore indipendente, diventare in altre parole un giovane “group leader” e iniziare a coordinare il lavoro altrui.
La competizione a questo punto diventa spaventosa. A essere ottimisti, il 10% dei postdoc può sperare di raggiungere una “tenure track” (ovvero quel percorso in cui sei un group leader “in prova”, per un periodo di solito sui 5 anni). Fermiamoci un attimo e ricapitoliamo cosa significa quanto detto:
1) La grande maggioranza degli esperimenti scientifici nel mondo è fatta da gente sotto i 35 anni, grottescamente sottopagata (specie in Italia, ma non solo) e priva di qualsiasi riconoscimento di tipo “sindacale”. Nel caso della ricerca i giovani non sono il futuro: sono il presente. La ricerca scientifica mondiale è letteralmente in mano (provette, computer e strumenti) a migliaia di ragazzi che rinunciano a vita, stipendio e carriere lucrose (se un giovane biologo brillante fresco di laurea o dottorato va all’estero e prova a lavorare nell’industria, le chance di trovarsi all’estero a fare il ricercatore nel privato sono piuttosto alte, e il trattamento economico e sociale decisamente più alto) per una passione, senza ricevere quasi nulla in cambio.
2) La ricerca scientifica funziona come un’azienda che sostituisse tutto il suo dipartimento ricerca e sviluppo ogni dieci anni. Non so se questo sia normale, ma mi colpisce sempre: è come se uno buttasse via tutti gli ingegneri in una azienda tecnologica e ne riassumesse di nuovi, neolaureati, ogni 10 anni, a parte i pochissimi che diventano dirigenti.
3) La competizione a livello postdottorale fa sì che, specie nelle istituzioni più prestigiose, si creino facilmente situazioni estremamente tossiche. Scordatevi una platonica torre d’avorio. Significa che la gente sabota regolarmente il lavoro altrui, fa di tutto per accaparrarsi il credito di lavoro a cui ha partecipato poco o nulla, e altro che condivisione delle conoscenze: ognuno tiene i propri progetti praticamente secretati nel terrore che gli vengano rubati dalla concorrenza. Aggiungete il fatto noto che questo conduce sempre piú ricercatori (una piccola minoranza, per fortuna, ma in crescita) a darsi alla frode scientifica pur di sopravvivere: si parte da casi in cui semplicemente si riducono i controlli, o si scopiazzano articoli da una parte all’altra, a storie eclatanti in cui si inventano dati di sana pianta per garantirsi il successo.
Nota generale: “competitivo” non significa necessariamente “meritocratico”. Spesso le due parole vengono considerate sinonimi. La cosa andrebbe tenuta bene in mente da chi chiede più “competitivita`” nella ricerca italiana. La ricerca italiana dev’essere più meritocratica, non più competitiva. Si compete già, in Italia, solo che non si fa in base al merito.
4) Intorno ai 30-35 anni abbiamo numerose persone con un curriculum buono o anche brillante che hanno fatto scienza tutta la vita e si trovano improvvisamente in mezzo alla strada, “overqualificati” per moltissimi lavori, e viceversa non qualificati per molti altri. Ci sono aziende che hanno come politica esplicita quella di non assumere persone con un dottorato o un postdoc perché ormai troppo slegati dalla “realtà”. Queste persone sono intorno al 70-90% di quelle che hanno iniziato una carriera accademica.
5) Il fatto che tutto giri intorno alle pubblicazioni e alle esigenze delle agenzie di funding, aggiunto al fatto che la ricerca scientifica è sempre una scommessa, fa sì che attualmente la ricerca scientifica sia in una spirale che la rende sempre meno coraggiosa, sempre più applicata e sempre più dipendente dalle politiche delle agenzie. In campio biologico è pressoché impossibile avere fondi se non si hanno chiare e immediate ricadute mediche o industriali della propria ricerca. Charles Darwin oggi non riceverebbe un soldo da un’agenzia di funding. Inoltre, tutti i postdoc tendono a cercare progetti più “sicuri”, a scavarsi piccole nicchie in cui sono certi di ottenere qualcosa, anche di piccolo, invece di tentare di imparare tecniche e discipline nuove, o di dedicarsi a esperimenti più coraggiosi, perché questo è quasi sempre solo un modo per suicidare la propria carriera.
Torniamo al nostro ex-dottorando ed ex-postdoc. Mettiamo che sia stato molto bravo, che abbia sgomitato il dovuto e che abbia vinto una tenure track. Questo cosa gli da? Cinque anni in cui avrà raggiunto l’indipendenza accademica, gestirà un progetto “suo” (purché piaccia a chi gli da i soldi) e in cui magari ha un paio di dottorandi a lavorare per lui. Bellissimo. Peccato che gli serviranno ancora soldi per pagare il laboratorio, la strumentazione, eccetera, e quindi dovrà fare ancora altre domande ad altre agenzie. Lo stesso ciclo di prima, eterno, solo peggiorato: ora la grande maggioranza del suo tempo sarà spesa a fare marketing della ricerca (che il ricercatore guida ma che fanno i suoi dottorandi) e sempre meno alla scienza vera e propria. Inoltre l’università gli fa pressione, perché a questo punto i grant che ottiene servono anche a finanziare il dipartimento stesso, non solo lui. E anche qui, non vincono tutti: una buona metà se ne torna a casa dopo cinque anni. A questo punto il ricercatore ha 40 anni, ha fatto ricerca tutta la vita (anche se negli ultimi 5 ha fatto più che altro fundraising), e maledettamente sovraqualificato e maledettamente troppo vecchio per trovare facilmente lavoro.
Si è mangiato la vita: non ha mai avuto un weekend libero, non si è mai liberato dal suo lavoro (la ricerca è un lavoro che divora, da cui non stacchi mai, a livello mentale), ha subito probabilmente mobbing e scorrettezze da numerosi colleghi, ha forse rinunciato o quantomeno messo in secondo piano famiglia e figli, non ha mai avuto una stabilità economica o geografica (molti ricercatori cambiano Stato 2, 3, 4 volte nella vita, spesso anche di più), ha dovuto conquistare tutto palmo a palmo, per cosa? Per ritrovarsi a 30, 35, 40 anni con in mano un pugno di mosche e qualche oscura pubblicazione, quasi certamente persa in un mare magnum di mille altre.
La torre d’avorio dell’accademia è solo la parte che si vede. Sotto terra, sotto la torre, brulica un sottosuolo di giovani brillanti, fortissimi lavoratori e tenaci sognatori ma il cui futuro è una lotteria, una mera illusione. Ovviamente chi vive nella torre d’avorio (cioè chi ha raggiunto finalmente un posto stabile come professore universitario) ha tutto l’interesse a mantenere lo status quo, o anzi ad aumentare a dismisura il numero di dottorandi e postdottorati: manovalanza a carico dell’università o delle agenzie esterne di funding; cervelli e mani che fanno tutto il reale lavoro di ricerca, e che è sempre sostituibile, pronta a essere buttata via e rimpiazzata nel giro di pochi anni.
Quello che ho raccontato nasce naturalmente dalla mia esperienza; ci sono ovviamente eccezioni e c’è ovviamente il dritto della medaglia. C’è lo stimolo psicologico, ovvero il fatto che spesso chi fa ricerca ha sempre sognato di farla e la cui personalità è in qualche modo dipendente/definita da questa realizzazione professionale. Significa da una parte che spesso è un mestiere a livello psicologico totalizzante, in cui si entra per vocazione spesso fin dall’infanzia, per spirito di conoscenza – e che quindi finisce per definire la tua persona; trovarsi di fronte alle dighe poste sul cammino della ricerca è spesso enormemente frustrante e infine, quando ci si trova costretti a cambiare cammino, la sensazione di aver fallito nella propria vita è ben più profonda di quanto normalmente sia per un altro tipo di carriera. Ma fare scienza è anche suo modo un mestiere meraviglioso, in cui sai di portare avanti, nel tuo piccolo, la gigantesca impresa dell’umanità di comprendere il mondo in cui vive e, alla fine, te stesso. La libertà intellettuale può essere inebriante. Forse troppo inebriante: forse gli scienziati riflettono troppo sui loro progetti e troppo poco sul sistema che li mantiene, li porta avanti per qualche anno e alla fine in tanti casi li getta via. Se mi chiedete quali sono le vie di uscita da questo gioco al massacro, io non so dare una risposta. Ma gli scienziati, e la società di cui fanno parte, dovrebbero chiedersi se questo è veramente l’unico modo di mandare avanti la ricerca. Non solo per gli scienziati stessi, ma per tutti.
http://www.ilpost.it/2011/02/28/sulla-ricerca-scientifica/
___________________
Mi vuoi dire, caro Sancho, che dovrei tirarmi indietro
perchè il "male" ed il "potere" hanno un aspetto così tetro?
Dovrei anche rinunciare ad un po' di dignità,
farmi umile e accettare che sia questa la realtà?
Don Chisciotte - Guccini
https://iltronodispade.wordpress.com/
Ludwig von Drake- -------------
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SCALA DI DAWKINS :
Data d'iscrizione : 19.11.08
Re: Scienza... quella vera
molto interessante e quasi commovente per me che fino a 39 anni ho fatto il ricercatore e poi mi sono messo a fare il musicista perché non ne potevo più, perché non ne potevano più di me, perché non c'erano più soldi (e infatti l'istituto in cui lavoravo è poi stato accorpato all'ISPRA, dentro cui continuano problemi di fondi e di immobilizzazione delle ricerche).
grazie ludwig. ti tingo di verde.
grazie ludwig. ti tingo di verde.
___________________
fine.
alberto- -----------
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SCALA DI DAWKINS :
Data d'iscrizione : 26.12.10
Re: Scienza... quella vera
Ti butto giù di qua gli stessi commenti (tre riflessioni un po' alla rinfusa) che ho fatto di là alla postatrice dello stesso articolo. Articolo lungo, risposta lunga.
Anche se vagamente pessimistica, mi pare una descrizione ben fatta del mondo della ricerca, almeno quella di base ed universitaria.
Ma partiamo dal Sandal: ritengo sia uno di quelli entrati nel tunnel perchè condizionati da scelte antiche, di quelli che da bambini vogliono fare lo scienziato o l'astronauta e finiscono per non evolvere più quell'idea. Pian piano gli si riempiono i testicoli di quello che sta facendo, ma non molla, sorretto ancora da quell'unico modo di concepire "il lavoro". Qualcuno ad un certo punto si sveglia, altri mai. Ne conosco anche io un paio, si sono svegliati presto, dopo pochi anni di postdoc, ora hanno un lavoro ben remunerato ma non fanno più il lavoro che avevano deciso di fare perchè la mamma faceva loro guardare superquark da piccoli. La cosa peggiore, comunque, è svegliarsi tardi: vuol dire stare male dentro la torre d'avorio e non avere più stimoli ma, nello stesso tempo, non avere più possibilità fuori.
Passiamo alle mie idee sul mondo della ricerca in generale.
Il mio dipartimento era aperto tutta la notte, ci lasciavo dentro la bicicletta quando uscivo con gli amici e, ogni santa volta che tornavo alle 4 o alle 5 a riprendermela, ubriaco fradicio, si riproponeva lo stupore\sgomento che provavo nel vedere quanta gente ci fosse ancora dentro a quell'ora a lavorare.
Ovviamente nessun professore, solo i suddetti "giovani", che tra l'altro in molti casi non sono più così giovani. Tra questi manovali della ricerca, ogni giorno Vedo gente stressata, che dorme 4 ore per notte e quando può dormire non riesce a prendere sonno, alitosi da ansia, problemi psicosomatici, pelle in decomposizione che cade a scaglie...
Ora, anche ammettendo che in media vadano a fare quel tipo di lavoro quelli già predisposti alla sofferenza (quelli che alle medie erano i quattrocchi), penso che il lavoro del ricercatore, se fatto in un certo modo, faccia proprio male. L'unico motivo per cui puoi continuare a farlo -anzi no, sono due, uno è che tu sia un nerd stratosferico e che quello sia il tuo unico modo di esistere- ma l'altro è che ti piaccia proprio quello che fai. E qui arriva la fregatura: di occhialuti ricercatori pronti a perdere la vita sul loro esperimento ce ne sarebbero a stuoli, invece, come dice il Sandal, da un certo punto in poi le doti mentali non bastano più, devi sviluppare anche l'area cerebrale adibita al management; perdere tempo con tonnellate di scartoffie, burocrazia, soldi, contatti, applications, recupero fondi, recupero risorse umane ecc ecc ecc. Così molte menti brillanti rimangono negli sgabuzzini per anni e molti scienziati mediocri salgono verso i primi piani della torre.
E qui si finisce al terzo punto. Il sistema "comunità scientifica". E' esattamente come dice il nostro amico: dal di fuori può sembrare un gran consiglio dei savi, tutti vestiti con camici dello stesso colore delle loro barbe d'anziani saggi. Ma non è così. Ed è per questo che nella discussione sull'acqua magica me la sono presa tanto con Rasputin e compagni di merende, perchè fare quel tipo di ricerche e relative pubblicazioni -funzionanti o bufale che siano- all'interno della comunità scientifica è assolutamente impossibile. L'affare del peer review, se da un lato dà una sorta di controllo, dall'altro rappresenta una forza inerziale che rallenta l'espansione della conoscenza e tende a riportare ogni spike di illuminazione geniale dentro il cerchio della normalità. Inoltre, quando cominci una riceca, i fondi ti vengono dati se ai "giudici" quella ricerca sembra poter funzionare. Sembra avere senso. E il sembra è la fregatura. Se le tue belle idee si discostano troppo dal "normale", ciao. Ormai senza i fondi le tue belle idee possono restare solo tali, almeno in determinati ambiti della scienza.
La ricerca scientifica è cosa assolutamente diversa da quello che certi non addetti ai lavori vanno sognando in giro per forum o blog.
Ah, va da sè che se sei in un ambiente pessimo, dopo 10 anni di guerra col vicino di banco, di acido e bile, di angherie e sfruttamenti, una volta che -se- riesci ad "entrare" sarai quasi sicuramente diventato un pezzo di merda.
Anche se vagamente pessimistica, mi pare una descrizione ben fatta del mondo della ricerca, almeno quella di base ed universitaria.
Ma partiamo dal Sandal: ritengo sia uno di quelli entrati nel tunnel perchè condizionati da scelte antiche, di quelli che da bambini vogliono fare lo scienziato o l'astronauta e finiscono per non evolvere più quell'idea. Pian piano gli si riempiono i testicoli di quello che sta facendo, ma non molla, sorretto ancora da quell'unico modo di concepire "il lavoro". Qualcuno ad un certo punto si sveglia, altri mai. Ne conosco anche io un paio, si sono svegliati presto, dopo pochi anni di postdoc, ora hanno un lavoro ben remunerato ma non fanno più il lavoro che avevano deciso di fare perchè la mamma faceva loro guardare superquark da piccoli. La cosa peggiore, comunque, è svegliarsi tardi: vuol dire stare male dentro la torre d'avorio e non avere più stimoli ma, nello stesso tempo, non avere più possibilità fuori.
Passiamo alle mie idee sul mondo della ricerca in generale.
Il mio dipartimento era aperto tutta la notte, ci lasciavo dentro la bicicletta quando uscivo con gli amici e, ogni santa volta che tornavo alle 4 o alle 5 a riprendermela, ubriaco fradicio, si riproponeva lo stupore\sgomento che provavo nel vedere quanta gente ci fosse ancora dentro a quell'ora a lavorare.
Ovviamente nessun professore, solo i suddetti "giovani", che tra l'altro in molti casi non sono più così giovani. Tra questi manovali della ricerca, ogni giorno Vedo gente stressata, che dorme 4 ore per notte e quando può dormire non riesce a prendere sonno, alitosi da ansia, problemi psicosomatici, pelle in decomposizione che cade a scaglie...
Ora, anche ammettendo che in media vadano a fare quel tipo di lavoro quelli già predisposti alla sofferenza (quelli che alle medie erano i quattrocchi), penso che il lavoro del ricercatore, se fatto in un certo modo, faccia proprio male. L'unico motivo per cui puoi continuare a farlo -anzi no, sono due, uno è che tu sia un nerd stratosferico e che quello sia il tuo unico modo di esistere- ma l'altro è che ti piaccia proprio quello che fai. E qui arriva la fregatura: di occhialuti ricercatori pronti a perdere la vita sul loro esperimento ce ne sarebbero a stuoli, invece, come dice il Sandal, da un certo punto in poi le doti mentali non bastano più, devi sviluppare anche l'area cerebrale adibita al management; perdere tempo con tonnellate di scartoffie, burocrazia, soldi, contatti, applications, recupero fondi, recupero risorse umane ecc ecc ecc. Così molte menti brillanti rimangono negli sgabuzzini per anni e molti scienziati mediocri salgono verso i primi piani della torre.
E qui si finisce al terzo punto. Il sistema "comunità scientifica". E' esattamente come dice il nostro amico: dal di fuori può sembrare un gran consiglio dei savi, tutti vestiti con camici dello stesso colore delle loro barbe d'anziani saggi. Ma non è così. Ed è per questo che nella discussione sull'acqua magica me la sono presa tanto con Rasputin e compagni di merende, perchè fare quel tipo di ricerche e relative pubblicazioni -funzionanti o bufale che siano- all'interno della comunità scientifica è assolutamente impossibile. L'affare del peer review, se da un lato dà una sorta di controllo, dall'altro rappresenta una forza inerziale che rallenta l'espansione della conoscenza e tende a riportare ogni spike di illuminazione geniale dentro il cerchio della normalità. Inoltre, quando cominci una riceca, i fondi ti vengono dati se ai "giudici" quella ricerca sembra poter funzionare. Sembra avere senso. E il sembra è la fregatura. Se le tue belle idee si discostano troppo dal "normale", ciao. Ormai senza i fondi le tue belle idee possono restare solo tali, almeno in determinati ambiti della scienza.
La ricerca scientifica è cosa assolutamente diversa da quello che certi non addetti ai lavori vanno sognando in giro per forum o blog.
Ah, va da sè che se sei in un ambiente pessimo, dopo 10 anni di guerra col vicino di banco, di acido e bile, di angherie e sfruttamenti, una volta che -se- riesci ad "entrare" sarai quasi sicuramente diventato un pezzo di merda.
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Devi peccare, se no Cristo che è morto a fare?
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Re: Scienza... quella vera
uoz ha scritto:
Ah, va da sè che se sei in un ambiente pessimo, dopo 10 anni di guerra col vicino di banco, di acido e bile, di angherie e sfruttamenti, una volta che -se- riesci ad "entrare" sarai quasi sicuramente diventato un pezzo di merda.
Oserei dire che questo è quasi un principio a carattere universale. Bel thread e begli interventi (uoz, voglio anch'io le stesse pillole che hai preso tu )
Vado a prendere il secchio di vernice verde.
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Re: Scienza... quella vera
Non posso che essere d'accordo con quanto scritto sopra in quanto vissuto per esperienza personale diretta.
Secondo me sarebbe molto utile spiegare meglio agli aspiranti scienziati (a livello di scuole medie e superiori) quello a cui vanno incontro scegliendo questo tipo di carriera. Certo questo sarebbe in contro-tendenza con quello che i politici di tutto il mondo continuano a dire, e cioe' che non ci sono abbastanza scienziati e che i giovani vanno indirizzati alla carriera scientifica, ma a me pare l'esatto contrario... perlomeno in biologia la domanda e l'offerta di un posto di lavoro non-precario come scienziato sono in un rapporto perlomeno 100:1 (fatto 100 gli scienziati che arrivano alla fine del percorso formativo laurea->dottorato->postdoc e quindi tralasciando la marea di gente che si allontana strada facendo). Un paio di anni fa' feci domanda per un tenure-track position allo Scripps Research Institute a San Diego. Quando, tra i 6 invitati per il "colloquio", chiesi alla "search committee" quante domande avessero ricevuto mi risposero 1200!!! Manco stessi facendo un concorso da forestale in Sicilia.
Sicuramente ci sono aree (e qui parlo perlomeno degli Stati Uniti prima della crisi) dove un posto tenure se sei un minimo valido te lo danno ancora prima di aver finito il dottorato (e.g., chemical and software engineering ed altre discipline economico/finanziarie dove il privato risucchia quasi tutti per via dei compensi molto piu' elevati rispetto all'accademia). Il problema e' che il percorso formativo e' cosi' lungo che e' difficile all'inizio della propria formazione scientifica indirizzarsi verso discipline (o ambiti specifici all'interno della disciplina scelta) con migliori sbocchi di carriera.
Il dramma inoltre sta nel fatto che nel continuo spostarsi da un Paese ad un altro alla fine manco ti vengono riconosciuti gli anni di lavoro (ed i contributi) a fini pensionistici... insomma oltre il danno la beffa.
L'altra distorsione del sistema e' che i troppi e lunghi postdocs alla fine producono "group leaders" con in media 35-40 anni (e con logorato entusiasmo). Alla fine del "tenure-track process" se non ce la fai ti ritrovi a 45+ anni senza sapere dove andare a sbattere la testa. Secondo il mio modesto parere bisognerebbe fare una selezione feroce subito o poco dopo il dottorato e fornire l'accesso ai piu' validi di fondi sufficienti a creare e portare avanti un proprio piccolissimo gruppo di ricerca (max 2 persone) per almeno 3-5 anni e su progetti rischiosi e con pochi o nulli risultati preliminari, ma ad alto possibile impatto. Questi micro-gruppi dovrebbero venire "hosted" in incubatori dotati di servizi di supporto sul modello collaborativo/matrix delle industrie biotech. In questo modo si verrebbero anche a creare posizioni di "staff scientist" non precarie per chi non passa la selezione iniziale ma tuttavia vuole continuare la vita di laboratorio.
Secondo me sarebbe molto utile spiegare meglio agli aspiranti scienziati (a livello di scuole medie e superiori) quello a cui vanno incontro scegliendo questo tipo di carriera. Certo questo sarebbe in contro-tendenza con quello che i politici di tutto il mondo continuano a dire, e cioe' che non ci sono abbastanza scienziati e che i giovani vanno indirizzati alla carriera scientifica, ma a me pare l'esatto contrario... perlomeno in biologia la domanda e l'offerta di un posto di lavoro non-precario come scienziato sono in un rapporto perlomeno 100:1 (fatto 100 gli scienziati che arrivano alla fine del percorso formativo laurea->dottorato->postdoc e quindi tralasciando la marea di gente che si allontana strada facendo). Un paio di anni fa' feci domanda per un tenure-track position allo Scripps Research Institute a San Diego. Quando, tra i 6 invitati per il "colloquio", chiesi alla "search committee" quante domande avessero ricevuto mi risposero 1200!!! Manco stessi facendo un concorso da forestale in Sicilia.
Sicuramente ci sono aree (e qui parlo perlomeno degli Stati Uniti prima della crisi) dove un posto tenure se sei un minimo valido te lo danno ancora prima di aver finito il dottorato (e.g., chemical and software engineering ed altre discipline economico/finanziarie dove il privato risucchia quasi tutti per via dei compensi molto piu' elevati rispetto all'accademia). Il problema e' che il percorso formativo e' cosi' lungo che e' difficile all'inizio della propria formazione scientifica indirizzarsi verso discipline (o ambiti specifici all'interno della disciplina scelta) con migliori sbocchi di carriera.
Il dramma inoltre sta nel fatto che nel continuo spostarsi da un Paese ad un altro alla fine manco ti vengono riconosciuti gli anni di lavoro (ed i contributi) a fini pensionistici... insomma oltre il danno la beffa.
L'altra distorsione del sistema e' che i troppi e lunghi postdocs alla fine producono "group leaders" con in media 35-40 anni (e con logorato entusiasmo). Alla fine del "tenure-track process" se non ce la fai ti ritrovi a 45+ anni senza sapere dove andare a sbattere la testa. Secondo il mio modesto parere bisognerebbe fare una selezione feroce subito o poco dopo il dottorato e fornire l'accesso ai piu' validi di fondi sufficienti a creare e portare avanti un proprio piccolissimo gruppo di ricerca (max 2 persone) per almeno 3-5 anni e su progetti rischiosi e con pochi o nulli risultati preliminari, ma ad alto possibile impatto. Questi micro-gruppi dovrebbero venire "hosted" in incubatori dotati di servizi di supporto sul modello collaborativo/matrix delle industrie biotech. In questo modo si verrebbero anche a creare posizioni di "staff scientist" non precarie per chi non passa la selezione iniziale ma tuttavia vuole continuare la vita di laboratorio.
___________________
Research is what I'm doing when I don't know what I'm doing. ~ Wernher Von Braun
Re: Scienza... quella vera
Chiedano al padre eterno di fare altrettanto, se ne e' capace..
Un gruppo di studiosi italiano ha scoperto un nuovo marcatore per i tumori maligni al polmone. È il gene cbx7: una serie di evidenze scientifiche già suggerivano che questo gene fosse un oncosoppressore,
la cui assenza o mutazione è associata a numerosi casi di tumori
maligni. La conferma definitiva è arrivata dal gruppo di ricerca guidato
da Alfredo Fusco, direttore dell’Istituto di endocrinologia ed
oncologia sperimentale del Consiglio nazionale delle ricerche (Ieos-Cnr)
di Napoli, grazie a uno studio condotto su un gruppo di topi.
La ricerca, finanziata dall'Airc (l'Associazione nazionale per la ricerca sul cancro), è stata pubblicata sul Journal of Clinical Investigation: "Utilizzando un modello di cosiddetti topi ‘knock out’, nei quali il gene viene reso non funzionante, abbiamo dimostrato che l’assenza di cbx7
determina lo sviluppo di adenomi e carcinomi polmonari - spiega Fusco
-. Il meccanismo alla base di queste neoplasie coinvolge la ciclina E.
L’aspetto importante della nostra ricerca è aver dimostrato che
meccanismi molto simili a quelli identificati nel topo sono alla base
anche dello sviluppo dei carcinomi polmonari umani.
Infatti anche in queste neoplasie si rilevano un’aumentata espressione
della proteina ciclina E e l’assenza dell’espressione di cbx7".
Questi risultati si inseriscono nell’ambito di un percorso
sperimentale cominciato all’Ieos-Cnr già negli anni ‘80. Recentemente il
gruppo aveva dimostrato che l'espressione di cbx7 è ridotta nei tumori
tiroidei, del colon e pancreas, e la sua assenza si verifica nelle
neoplasie più invasive e a ridotta sopravvivenza. Cbx7, conclude lo
studioso, può essere quindi "considerato un eccellente marcatore per
la diagnosi e la prognosi dei carcinomi del polmone e di altri organi",
e ciclina E è un "possibile bersaglio terapeutico nelle neoplasie
polmonari”.
delfi68- -------------
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Re: Scienza... quella vera
Dio non esiste: il posto è vacante.delfi68 ha scritto:Chiedano al padre eterno di fare altrettanto, se ne e' capace..
Steerpike- -----------
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Re: Scienza... quella vera
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Re: Scienza... quella vera
Darrow ha scritto:http://atei.forumitalian.com/t3095p460-no-tav-si-tav#124374
Stai spammando per caso?
No, ho messo prima qui il post perchè ho visto il topic "scienza vera", poi mi sono ricordato del topic sulla tav dove si stava discutendo sul nucleare vs rinnovabili e l'ho postato anche la
teto- -----------
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Re: Scienza... quella vera
E poi dicono che la ricerca di base è inutile.
Steerpike- -----------
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