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un viaggio nel malessere della società araba

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Messaggio Da Nessuno Mar 26 Lug 2016 - 18:54

di Shadi Hamadi

Il 12 novembre del 2015 ero a Beirut. Mi è arrivato un messaggio sul cellulare: “attentato a Bourj el-Barajneh”. Non si parlava della gravità dell’evento. Insieme ad alcuni amici, sono andato nella caffetteria più vicina. Le immagini in Tv scorrevano confuse. Trenta morti, poi sessanta.
Il bilancio definitivo sarebbe stato di ottanta morti e un centinaio di feriti. Fuori dalla caffetteria a Badaro, un quartiere di Beirut, c’era un insolito silenzio rotto solo dalle sirene delle ambulanze che si dirigevano verso il luogo dell’attentato, a quindici minuti di distanza da noi. La televisione mostrava la scena. Le bancarelle del mercato e alcuni negozi erano stati sventrati. Si vedevano resti di persone carbonizzate. “Due attentatori si sono fatti esplodere. Quando il primo è saltato in aria, il secondo ha aspettato che la gente accorresse in soccorso delle vittime e poi si è fatto saltare anche lui. Il terzo è stato neutralizzato prima che detonasse la sua cintura esplosiva”, raccontava la giornalista. Quando il cameraman ha inquadrato il terzo attentatore, ucciso dagli uomini di Hezbollah che controllano i sobborghi a sud di Beirut, ho guardato il suo volto, avrà avuto trentacinque anni. I capelli e la barba appena tagliati. Mi sono chiesto cosa avesse pensato la mattina mentre era dal parrucchiere a prepararsi. Si era fatto bello come per andare a un matrimonio: sposava la morte per dare la morte.
La giornalista della televisione libanese ha intervistato un ragazzo che aveva un braccio ancora sanguinante. Era seduto sul marciapiedi. Gli ha chiesto: “sei contento di essere sopravvissuto?”. “No, volevo essere martire”. La sua risposta racchiude la cultura della morte.
Il fondamentalismo islamico non può essere spiegato semplicemente con l’interpretazione distorta del Corano, altrimenti il fenomeno dell’integralismo coinvolgerebbe una fetta enorme dei fedeli musulmani. Le cause vanno cercate nella società e in eventi storici che hanno influenzato il senso comune e l’immaginario collettivo.
È necessario però premettere che il percorso verso il radicalismo di un fondamentalista nato e cresciuto in un Paese arabo o islamico, è differente da quello di un cittadino europeo di fede islamica nato e cresciuto in Europa.
Nei Paesi arabi il fondamentalismo ha come data fondante la guerra del 1967, in cui i regimi arabi d’allora furono sconfitti da Israele. “Lo shock per gli arabi – scriveva il filosofo siriano Sadiq Jalal al Azm – poteva essere paragonato al disagio che provò Golia quando fu sconfitto da Davide. Un’intera comunità di Stati venivano sconfitti da una piccola nazione”. Questa disfatta fu strumentalizzata dai regimi reazionari che presero il posto delle dittature presenti. Le società arabe, spinte a credere a questi nuovi uomini forti che promettevano la rivalsa, furono invece soggiogate e represse proprio dai regimi ai quali avevano affidato la speranza di una rivincita. Questi governi imposero un clima di persecuzione e repressione, annullando la vita politica. Hafez al Asad, salito al potere nel 1970, usando la sconfitta del 1967 per delegittimare il governo di Nureddin al Atassi e Salah al Jadid, costituì un regime basato su un’alleanza fra le minoranze religiose e sostenuto dalla borghesia sunnita. L’evento creò un malessere nella maggioranza della popolazione di fede sunnita, che si sentì esclusa, per la prima volta nella storia, dalla gestione del potere.
Bisogna appartenere a una famiglia sunnita siriana per capire il disagio che si prova a essere esclusi da alcuni diritti reali. La creazione di questo malessere serviva al regime siriano per legittimare il proprio ruolo di protettore delle minoranze. Nel tempo l’idea che il governo degli Asad sia il protettore delle minoranze ha prodotto un cristianesimo di Stato, colluso con il governo e incapace di emanciparsi, e un islam di Stato, espressione del potere, fondamentale per calmare il malessere che la settarizzazione della Siria aveva causato nella società. Le argomentazioni dei fondamentalisti alla ricerca di nuovi adepti sono diventate più forti a partire dagli anni Ottanta: ad Hama, nel 1982, decine di migliaia di sunniti furono trucidati dalle compagnie della difesa, guidate da Rifat, fratello di Hafez al Asad. Questo ha causato un ritorno alla religione da parte dei sunniti e ha portato i giovani nati negli anni Ottanta (oggi in prima fila nelle formazioni fondamentaliste) verso un radicalismo latente che si è palesato solo con lo scoppio della rivolta e la radicalizzazione dovuta alla repressione delle manifestazioni pacifiche.
È indubbio che un giovane siriano, sunnita, nato nel 1988, sia propenso, qualora imbracci le armi, a entrare in una formazione fondamentalista proprio perché associa ogni altra ideologia, dal socialismo all’idea della laicità, al regime. C’è quindi uno stretto legame fra regimi autoritari arabi e fondamentalismo. Potremmo spingerci a dire che se tali regimi non ci fossero stati, oggi non avremmo il problema del radicalismo. Una prova ce la fornisce la storia. Negli anni Quaranta e Cinquanta in Siria il fondamentalismo non era un’ideologia affermata. L’islam politico, cinquant’anni fa, aveva un consenso irrilevante nei Paesi arabi. Questo è lo scenario che ha condotto all’aumento del radicalismo in Siria e nel mondo arabo-islamico. L’assenza di prospettive, di speranza e il diffuso fatalismo hanno prodotto il resto. Nel 2010 il filosofo siriano Tayyib Tizini osservava: «Le élite arabe sono le principali responsabili, dal momento che non hanno affrontato i problemi essenziali della società araba: la disoccupazione, la libertà limitata e una cultura sotto censura. Milioni di giovani non sono in grado di soddisfare le loro necessità quotidiane. Questo ha come conseguenza che cerchino alternative. E tali alternative possono essere suddivise in tre percorsi. […] Uno è il viaggio verso il paradiso per coloro che non trovano soluzione qui. Per loro, gli estremisti sono i predicatori di un mondo migliore dall’altra parte – e l’islam è la soluzione a tutti i problemi. Il secondo viaggio è dentro se stessi. Chi non riesce a venire a patti con il mondo reale fugge nell’infinito del suo mondo interiore. Il terzo percorso inizia davanti alle porte delle ambasciate occidentali, l’illusione che la trinità della libertà, dignità e sicurezza finanziaria esista solo in Occidente. Ma la situazione in Occidente è diventata più complicata. E queste persone vivono in un cerchio di disperazione, dal momento che la loro patria non è in grado di sostenerle, e il resto del mondo non le vuole. È proprio in questo stagno che il “movimento islamico” pesca e getta le basi per la sua teoria della morte, che parte dalla convinzione che un ritorno ai nostri antenati risolverà tutti i problemi».
Il giorno dopo la strage di Beirut, decine di giornalisti vennero in città. Ricordo di aver ricevuto diverse chiamate da parte di corrispondenti italiani che volevano un aiuto. Ma la strage del Bataclan, a Parigi, focalizzò tutta l’attenzione e i giornalisti occidentali arrivati a Beirut volarono subito verso la Francia. Gli amici beirutini mi chiesero se i loro morti valessero di meno di quelli francesi. Si sentivano incompresi e non riconosciuti. Perché il mondo non si riuniva per loro, adoperando slogan ormai celebri? La mancanza di riconoscimento è un altro elemento che provoca malessere. Se i miei morti valgono di meno, non vengono raccontati, rimangono solo numero, perché devo provare empatia? Questo fa parte anche del bagaglio di motivazioni che spinge i giovani europei di fede islamica ad abbracciare il radicalismo. Da europeo musulmano, figlio di un genitore arabo, capisco, senza condividere, le dinamiche che spingono alcuni giovani verso il califfato. Anche in questo caso c’entra poco l’interpretazione dell’islam.
Dobbiamo parlare di un assedio mediatico e di stereotipi diffusi che creano un irrigidimento dell’identità. Se sento incolpare la mia religione, la sento sotto attacco (c’è chi sostiene che l’islam sia una religione della violenza), allora parte del mio essere, della mia identità viene toccata e farò di tutto per riaffermare quello che sono. Oltre a questo, in Francia c’è un fenomeno di ghettizzazione sociale. Tutti i giovani che sono andati a combattere con l’Isis provenivano da situazioni di profondo disagio e molto spesso credevano che il ritorno all’islam li avrebbe salvati. Il fenomeno dei foreign fighters è tutto europeo e le cause che lo provocano sono da cercare nelle nostre società. La paura verso l’islam, svuotato di ogni suo significato, non può che creare ulteriore malessere; quello che nasce dalla non accettazione e che fornirà ai radicalisti l’argomento adatto per trovare nuovi adepti. La nostra paura, la paura dell’islam, può essere sconfitta se riusciremo a sostenere l’islam locale, quello levantino in particolare, che ha nella sua storia la pacifica convivenza con altre fedi. L’esempio di questa convivenza, lunga oltre 1400 anni, può permetterci di avere fiducia nel futuro e abbattere i muri della paura che ci stanno portando verso derive populiste e xenofobe che ricordano cose già accadute.

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Messaggio Da Rasputin Mar 26 Lug 2016 - 20:31

Ottimo articolo. La fonte?

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Messaggio Da Cyrano Mar 26 Lug 2016 - 20:43

Molto interessante ma...il ruolo dei wahabiti? il salafismo?
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Messaggio Da Nessuno Mar 26 Lug 2016 - 20:49

Rasputin ha scritto:Ottimo articolo. La fonte?
http://www.addeditore.it/blog/societa-araba/

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Messaggio Da Nessuno Mar 26 Lug 2016 - 20:53

Cyrano ha scritto:Molto interessante ma...il ruolo dei wahabiti? il salafismo?

Pescatori nel torbido? Con tanti soldi venuti da qualche politico pescatore nel torbido? [Mi viene in mente, anche se stona, Guzzanti, Pescatori di pescatori nel torbido] L'impressione mia è questa.

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