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Messaggio Da Ludwig von Drake Gio 2 Apr 2009 - 8:48

Corriere.it

PECHINO —La morte di Jang Ja-yeong non finisce più. È come se il cappio che se l’è presa il 7 marzo stia cominciando a stringersi intorno alle coscienze, come se la Corea del Sud debba seguire quella corda per sapere qualcosa di sé. Un suicidio. Jang, 27 anni, era stata trovata dalla sorella con la quale viveva da 10 anni, dopo la morte dei genitori in un incidente stradale. Era un’attrice, volto popolare di una famosa serie tv, Boys Over Flowers. Eppure, in un Paese che già convive con ricorrenti suicidi di donne di spettacolo, il caso di Jang aveva qualcosa di più. Una lettera di sette pagine in cui raccontava di essere stata costretta incontrare uomini, in pratica a prostituirsi, su imposizione della sua casa di produzione. Essere gentile con danarosi uomini d’affari che avrebbero potuto aiutarla o, peggio, aiutare la società.

L’atto d’accusa postumo sembrava contenere 12 nomi di uomini che hanno avuto rapporti con Jang, la polizia ha poi aggiunto un tredicesimo. Ufficialmente non sono stati rivelati, ma indiscrezioni e speculazioni hanno cominciato a circolare, con le foto delle stanze allestite della casa di produzione per gli incontri di Jang. Come se non bastasse, si è scatenata una diatriba fra manager ed ex manager sulle reciproche responsabilità, su come sia stata diffusa la lettera, sul numero delle copie esistenti. Il dato di fondo, tuttavia, resta l’opacità del mondo delle produzioni televisive sudcoreane, che alimentano l’intero mercato asiatico. Gruppi attenti ai diritti delle donne parlano apertamente di «nuova schiavitù». Sottolineano che la vicenda di Jang mostra una società ancora intimamente maschilista, in cui abusi come quelli patiti dall’attrice «non sono stati adeguatamente indagati, in passato». I contratti-capestro delle case di produzione, non soltanto in Corea del Sud, rischiano di istituzionalizzare la subalternità di attrici acerbe trasformate in personaggi pubblici ma ricattabili.

L’attenzione ossessiva del pubblico, esercitata attraverso Internet, è ritenuta determinante nella serie di suicidi di gente di spettacolo che hanno assunto i contorni di una piaga endemica. In ottobre si era uccisa a 39 anni Choi Jin-sil, accusata sul web di avere indotto alla morte un collega , Ahn Jae-hwan, oberato dai debiti. L’anno prima si erano suicidate la cantante Yuni, rimproverata online di aver fatto ricorso alla chirurgia estetica, e un’altra artista, Jeong Da-bin. Lista incompleta. La vicenda di Choi aveva rilanciato la campagna per una regolamentazione di Internet in Corea del Sud, dove fioriscono forum che consentono registrazioni anonime e dove le calunnie erodono la privacy. Ma con Jang il web non c’entra. Sono in gioco atteggiamenti, abitudini, affari che hanno rivelato il lato oscuro di una florida industria. Ma i tasselli del puzzle vanno ancora messi al loro posto. La morte di Jang, per adesso, ha un finale aperto.

Marco Del Corona
01 aprile 2009
Ludwig von Drake
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