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Morte e felicità

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Messaggio Da Paolo Mar 17 Apr 2012 - 20:23

Riprendo un tema che ho brevemente discusso con Multiverso in un altro Topic. Li eravamo OT così ho pensato di riproporlo in un nuovo Topic.

Io so che la posizione della (penso) grande maggioranza dei non credenti ritiene che l'origine della religione, o meglio del bisogno dell'uomo di cercare ed avere una qualche fede in qualcosa di superiore (quello che abbiamo definito anche come sentimento religioso) abbia origine essenzialmente dalla paura della morte. Io ho assistito ad una conferenza tenuta da Severino, che è considerato uno dei maggiori pensatori attuali, ove, trattando vari temi filosofici, dava come per scontato questo assioma: paura della morte = religione.

A supporto di questo si fa presente che sia tutte le religioni in un modo o nell'altro, garantiscono un proseguimento della vita oltre la morte, sia perché questo è una caratteristica comune a tutti i popoli e a tutte le culture.

Su questo punto ho scritto già qualche volta in quanto ritengo che questa non sia la giusta interpretazione e valutazione del problema. Il primo punto è che in realtà nessuno cerca l'immortalità. Ci si rivolge a dio non certo per chiedere di non farci morire, ma di non farci soffrire. Il credente prega affinché gli venga data la possibilità di superare le difficoltà che lui non ha la possibilità di affrontare o di risolvere. La paura della morte è la conseguenza del dolore morale che ti provoca il fatto di andare in contro ad una morte prematura, tua o di chi ti è vicino. Il vero e ultimo fine di ogni nostra azione è quello di rifuggire da ciò che ci provoca dolore per la ricerca costante e continua della felicità! Perciò, quando noi siamo consci che non abbiamo alcuna possibilità fisica di evitare la contrarietà, il problema o la disgrazia che ci provocano dolore, noi ci rivolgiamo a dio perché intervenga a risolvere un problema insolubile, ci eviti la disgrazia e via dicendo.

Io mi ricordo che, tutte le volte che ho avuto modo di parlare con persone anziane che si sentivano e capivano che la loro vita non poteva certo proseguire a lungo, nessuno mi ha mai detto di aver paura di morire o altre cose simili. Erano tutti sereni e non certo preoccupati del loro futuro. E questo al di la che fossero credenti o no. Ritengo che la Natura abbia programmato il nostro cervello ad accettare, senza paura, questo ultimo passo della nostra vita. Ben diverso è il caso della morte prematura. La consapevolezza di questo provoca uno stato di paura dell'ignoto e di soffrire. Ritengo che questo abbia poco a che fare con l'istinto di conservazione, ma non sono ancora riuscito ben ad inquadrare che correlazione ci possa essere tra questo istinto e la paura di morire. A prima vista può sembrare che questi due sentimenti o istinti siano direttamente correlati. Io credo invece che ci sia qualcosa di più, ma non riesco a mettere a fuoco cosa.

Però, al di la di questo, ritengo che nessuno ambirebbe a vivere eternamente però soffrendo. La felicità è il primo requisito che noi cerchiamo. Vivere ad eterno, che oltretutto è anche difficile anche da immaginare cosa significhi, non è ciò che l'uomo ambisce ottenere. Se consideriamo chi si uccide per un ideale, diciamo un kamikaze, è logico che non tema la morte. E questo perché in quel momento riesce a compiere un atto cui lui conferisce estremo e sommo valore. Questo gli fornisce un appagamento tale da renderlo talmente felice che non solo supera la paura della morte, ma la ricerca in tutti i modi.


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Messaggio Da Sally Mar 17 Apr 2012 - 20:40

Paolo ha scritto:
Però, al di la di questo, ritengo che nessuno ambirebbe a vivere eternamente però soffrendo. La felicità è il primo requisito che noi cerchiamo. Vivere ad eterno, che oltretutto è anche difficile anche da immaginare cosa significhi, non è ciò che l'uomo ambisce ottenere.

Io credo che le persone anziane accettino l'idea di morire proprio per la loro condizione "insopportabile" di vita. Ovvero se esistesse l'eterna giovinezza, con annessa salute finsica e mentale, nessuno accetterebbe di buon grado la propria (o altrui) dipartita.
Il fine ultimo dell'uomo e' quello di prolungare il piu' possibile pa propria vita. Noi siamo programmati per vivere e la morte e' cio' da cui siamo costantemente impegnati a scappare. Se ci pensi bene, anche il dolore e' un meccanismo che ci aiuta a prevenire la morte. Quando metti un dito sul fuoco il tuo istinto e' quello di ritrarlo, poiche' se tu non sentissi dolore, nulla ti vieterebbe di tenere il dito sulla fiamma ed eventualmente anche il resto del corpo, provocando cosi la tua morte.

Sul fatto poi che la religione sia nata per consolare questa atavica paura, mi trovi in un certo senso d'accordo... la religione e' molto altro ancora. Tutto ovviamente parte dalla "mente intenzionale", per svilupparsi in pensieri sempre piu' elaborati, fino alla fede e all'accettazione dei dogmi (con momentanea sospensione della razionalita'... sic!).
Il pensiero che dopo la morte ci sia qualcosa secondo me nasce dopo, dopo l'attribuzione di un'intenzionalita' dell'ambiente esterno... e in qualche modo non e' nemmeno collegato ad esso. La vita dopo la morte deve per forza nascere dopo l'invenzione dell'anima, poiche' altrimenti sarebbe abbastanza scontato il constatare come il corpo fisico deperisca velocemente e non lasci traccia di se'.
Io avanzo un'ipotesi, ovviamente da confermare (ci saranno studi in proposito)... per me e' piu' plausibile pensare che la prima ipotesi di "vita dopo la morte" sia stata la reincarnazione... insomma, un uomo muore, dopo poco ne nasce un altro... magari con tratti del carattere simili a quelli del defunto e si pensa (si spera) che qualcosa -l'anima- del morto sia rinata nel nuovo corpo...

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Messaggio Da silvio Mar 17 Apr 2012 - 22:15

[quote="Paolo"]

Io mi ricordo che, tutte le volte che ho avuto modo di parlare con persone anziane che si sentivano e capivano che la loro vita non poteva certo proseguire a lungo, nessuno mi ha mai detto di aver paura di morire o altre cose simili. Erano tutti sereni e non certo preoccupati del loro futuro. E questo al di la che fossero credenti o no. Ritengo che la Natura abbia programmato il nostro cervello ad accettare, senza paura, questo ultimo passo della nostra vita.

Però, al di la di questo, ritengo che nessuno ambirebbe a vivere eternamente però soffrendo. La felicità è il primo requisito che noi cerchiamo. Vivere ad eterno, che oltretutto è anche difficile anche da immaginare cosa significhi, non è ciò che l'uomo ambisce ottenere.



La morte è un fatto personale e soggettivo, ognuno la immagina in modo diverso, ognuno la vive in modo diverso, generalizzare non è possibile.

Non credo che la religione sia solo paura della morte, si può avere paura e terrore della morte anche non essendo religioso.

Alla base penso ci sia il desiderio di esprimersi, realizzare il proprio volere vitale, cioè creare qualcosa, lavorare ad un progetto, ad un legame, la morte cancella tutto ciò, priva l'essere della sua felicità primaria, esprimersi, esistere, consapevolmente amare.

Quindi alla base della morte c'è una assoluta violenza, contro l'essere che sprofonda nel non essere, cioè nel nulla.

Non ha nulla a che fare con la religione, un credente od un ateo possono avere lo stesso atteggiamento verso la morte, semplicemente ci sono uomini e donne che non temono lo scomparire ed altri si.
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Messaggio Da delfi68 Mar 17 Apr 2012 - 22:22

Mi è capitato di ponderare questa lunga avventura, e proiettarmi in un ipotetico momento di morte.

Che momenti fantastici..star li a contemplare i progressi dei miei figli, dai pannoloni alla prima telefonata. Dai passi accennati in un girello alla partita a pallone. Con in mezzo l'avventura più fantasmagorica che mi potevo augurare..

Credo che per morire felici, bisognerebbe arrivarci senza troppi rimorsi o rammarichi..tutto sommato uno, se ha vissuto una grande storia d'amore, può anche morire soddisfatto.

Credo che la cosa più triste siano le vite sprecate, povere di emozioni, sentimenti, grandi passioni..l'adrenalina centellinata con il contagocce e tante energie mai spese..

Non mi ricordo dove l'ho letto, ma qualcuno scrisse, che arrivare alla morte avendo ancora con se delle energie e delle forze, è davvero un delitto..ecco perchè non sarò mai buddista e nemmeno un bravo ragazzo..

Sinceramente, penso che mentre starò morendo, mi scapperà un sorriso, ripensando a tutte quelle che ho combinato e a tutte le travolgenti passioni a cui mi sono sempre abbandonato..
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Messaggio Da silvio Mar 17 Apr 2012 - 22:32

Mi domando che cosa ha provato mio padre quando il medico gli ha detto che aveva un cancro ai polmoni e che non poteva curarlo, mi domando come ha vissuto dentro i due anni di vita consapevole di morire, provo ad immaginarmi al suo posto, mi riesce difficile, non so che si provi.

Osservando alcune persone a cui sono stato vicino nel momento dello spegnimento, ho notato che alla fine si rilassano, come se gettano la spugna, tipo non ci posso fare nulla...
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Messaggio Da delfi68 Mar 17 Apr 2012 - 22:36

..credo che un padre non darà mai, almeno cosi mi pare, l'onere del tormento a un figlio..

Io ho subito i tormenti di alcune persone, che ho conosciuto in ambito ospedaliero e che aimè, dannato umano, non ho mai tenuto a debita "distanza" professionale..

La cosa più feroce e che non dimenticherò mai è una telefonata nel cuore della notte..
Morire è la cosa più triste che può cogliere una persona, mi sembra che assomiglia anche a qualcosa di simile alla claustrofobia..una sensazione di non poter uscire, cambiare canale, riavvolgere il nastro..

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Messaggio Da silvio Mar 17 Apr 2012 - 22:43

Forse sarà come uno che si butta dal 5 piano ad un certo punto si rende conto che non può più tornare indietro, cazzo è terribile !
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Messaggio Da delfi68 Mar 17 Apr 2012 - 22:46

Silvio, hai notato che lo si capisce solo dopo una certa età?..in genere dopo i 40 45 anni si percepisce qualcosa in più in merito alla morte..
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Messaggio Da silvio Mar 17 Apr 2012 - 22:50

[quote="delfi68"]

Silvio, hai notato che lo si capisce solo dopo una certa età?..in genere dopo i 40 45 anni si percepisce qualcosa in più in merito alla morte..



E' vero, lo confermo, inizia ad essere qualcosa di reale non teorico.
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Messaggio Da Paolo Mar 17 Apr 2012 - 23:24

La paura della morte ritengo che sia più una cosa emotiva che non razionale. Se infatti dovessimo valutare la questione solo in modo logico e razionale, la morte per il "morto"non esiste . Non è un paradosso o un gioco di parole, ma quando c'è l'una cosa non ci può essere l'altra. Io mi immagino la vita come una corda che prima o poi finisce. Può essere più o meno lunga ma ad un certo punto termina. Perciò domandarsi cosa ci sia dopo la morte è come chiedersi cosa c'è quando la corda finisce. Proprio perchè finisce non c'è più niente, però non c'è nemmeno la corda, che rappresenta la vita di ognuno di noi.

Se però noi facciamo una valutazione delle varie paure e desideri degli uomini risulta che la ricerca della felicità riesca a farci superare la voglia di vivere. Ci sono infatti valori che per noi hanno una importanza maggiore della vita stessa, e per i quali siamo disposti a morire. E questo è così perchè da un lato la felicità di essere capaci di cose grandi, quanto meno così noi le valutiamo, dall'altro la consapevolezza che se non ci comportassimo così andiamo in contro ad un dolore morale che riteniamo insopportabile, che è il rimorso, ci impongono una scelta del tutto innaturale.

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Messaggio Da silvio Mar 17 Apr 2012 - 23:32

Paolo ha scritto:
Ci sono infatti valori che per noi hanno una importanza maggiore della vita stessa, e per i quali siamo disposti a morire. E questo è così perchè da un lato la felicità di essere capaci di cose grandi, quanto meno così noi le valutiamo, dall'altro la consapevolezza che se non ci comportassimo così andiamo in contro ad un dolore morale che riteniamo insopportabile, che è il rimorso, ci impongono una scelta del tutto innaturale.



Si è interessante il fatto che per certi valori siamo disposti a morire senza troppi perchè....è vero e singolare.
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Messaggio Da Paolo Mar 17 Apr 2012 - 23:37

Ancora più singolare che non solo siamo disposti a morire, ma lo desideriamo!

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Messaggio Da silvio Mar 17 Apr 2012 - 23:41

Contraddizioni dell'uomo
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Messaggio Da Paolo Mar 17 Apr 2012 - 23:50

silvio ha scritto:Contraddizioni dell'uomo

Si e no! Mi rifaccio alla argomentazione che ho esposto all'inizio in quanto io penso che c'è qualcosa che ci spaventa più della morte che è il dolore. E per contro c'è qualcosa che ci attrae di più che vivere che è la felicità. Le due cose congiunte portano a questi che possono sembrare contraddizioni.

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Messaggio Da silvio Mer 18 Apr 2012 - 0:26

In teoria la difesa ad oltranza della vita dovrebbe essere lo scopo proimario di qualsiasi animale, ma non è così, anche negli animali sociali ci sono gli individui che si sacrificano per gli altri.

Certo è il gruppo che conta, per gli esseri umani, ci sono tendenze anche individuali, sarebbe interessante capire che cosa è la felicità, è un fatto soggettivo ?
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Messaggio Da klaus54 Mer 18 Apr 2012 - 10:15

Qualche tempo fa mi interessai all'argomento, ossia come un individuo possa "sacrificarsi" in nome di qualcosa che consideri più importante della propria autoconservazione. In realtà questo meccanismo è presente in varie specie viventi in cui il numero sia sufficientemente alto da conservare e portare avanti il gruppo, e quindi la specie, di appartenenza. Un esempio sono gli gnu in migrazione, molto spesso gli individui più anziani, che si schierano ai lati della massa migratoria, "sacrificano" se stessi per far si che gli individui più giovani riescano ad andare avanti nella transumanza. Molti primati lo fanno, tra cui ovviamente gli scimpanzè, ma nel mondo scientifico ormai questa specie è stata assimilata all '"homo", quindi i loro comportamenti, seppur rudimentali se paragonati a quelli del sapiens, sono del tutto assimilabili a quelli della specie umana.
In realtà il sacrificio (durante le calamità,in battaglia, in situazioni di pericolo ecc ecc), ed insieme il suicidio "sociale",ossia quello messo in atto per dimostrazione e protesta (come nelle varie contestazioni in cui alcune persone si diedero fuoco) è ben analizzabile secondo quanto esposto da Dhurkeim nei suoi studi sulle collettività.
In realtà il suicidio altruistico (e quindi anche il sacrificio) nasce quando si ha uno schema al rovescio, ossia quando non sono i singoli individui a creare la società, ma è la società stessa motore plasmante degli individui. In questi contesti, in cui i singoli vengono "spersonalizzati" è più facile che l'individuo,fortemente integrato nella società o nel gruppo di appartenenza, rinunci alla propria vita in nome di un valore più importante per la collettività. Dhurkeim analizzò anche la distribuzione nelle varie popolazioni del suicidio altruistico, chiamandolo coefficiente di preservazione: ad esempio le donne sposate hanno un coefficiente di preservazione più alto rispetto a quelle non sposate, in quanto la loro autoconservazione è funzione dela prole più che della società stessa.
La felicità è sicuramente un parametro soggettivo ed anche molto volubile. Tralasciando quanto sempre detto da me,ossia che serenità e felicità non sono sinonimi, la felicità è data dalla soddisfazione dei bisogni primari e dai bisogni secondari spinti dalla società stessa e dalla formazione individuale. Un aborigeno ed un uomo occidentale, sebbene abbiano gli stessi bisogni primari, di sicuro hanno come parametro di felicità (=appagamento) dei fini totalmente differenti.

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Messaggio Da Paolo Mer 18 Apr 2012 - 20:21

Klaus, condivido la tua osservazione sul significato sociale del suicidio, ovviamente quello non per disperazione. Ma ci sono due tipi ben distinti di suicidio in nome di un ideale. C'è quello eroico, ovvero uno che sa di andare in contro a morte certa per salvare qualcuno o qualcosa cui lui attribuisce valore superiore alla sua stessa vita. Diciamo che in questo caso colui che compie l'azione eroico-suicida vede la sua morte come un danno "collaterale" inevitabile. Pur portando a termine la sua missione, fa ti tutto per evitare di morire. C'è invece il suicidio volontario o dimostrativo il cui il fine del proprio atto è quello di morire. Se sopravvive ha fallito alla sua missione.

Questo differenzia molto le motivazioni che ci sono all'origine dei due gesti. Mentre nel primo caso, come hai fatto notare tu Klaus, le motivazioni sono sociali, nel secondo invece è una forma di estrema dimostrazione di dedizione al'ideale che vuole perseguire. Io penso che il kamikaze islamico che si fa saltare in aria lo faccia per dimostrare al suo dio che lui è pronto a tutto, perfino alla morte per lui. E' del tutto assimilabile al credente che porta il cilicio, che si flagella, o che fa digiuni insensati.

E per me è questo meccanismo che è alla base delle religioni. Ovvero la necessità di dimostrare a qualcuno, cui si conferisce valore assoluto, che lui gli è assolutamente fedele. E' una forma che io assimilo al masochista, particolarmente in ambito sessuale. Il piacere di di dimostrare ad un'altra persona che si è pronti a soffrire per lui, supera il dolore fisico. Ed è la stessa cosa per il credente. Il dolore della privazione o punizione fisica, anche col sacrificio della vita, viene superato dal piacere di poter dare questa forma di "fedeltà" assoluta a chi si ritiene sia tutto per noi.

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Messaggio Da Steerpike Ven 20 Apr 2012 - 16:40

Paolo ha scritto:La paura della morte ritengo che sia più una cosa emotiva che non razionale. Se infatti dovessimo valutare la questione solo in modo logico e razionale, la morte per il "morto"non esiste .
Per il vivo sì. Qualunque obiettivo a termine più lungo del periodo che resta da vivere è destinato a non essere raggiunto, e questo rende sconsigliabile morire (cit. Capitan Ovvio).
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Messaggio Da AndreaFWN Gio 26 Apr 2012 - 15:12

Esiste un unico errore innato, ed è quello di credere che noi viviamo per essere felici.

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Messaggio Da delfi68 Gio 26 Apr 2012 - 15:17

Be'..almeno uno ci prova..
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Messaggio Da luna Gio 26 Apr 2012 - 15:30

AndreaFWN: Esiste un unico errore innato, ed è quello di credere che noi viviamo per essere felici.
Non so se sia innato o meno ma sono daccordissima su questa cosa.

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Messaggio Da AndreaFWN Gio 26 Apr 2012 - 15:33

luna ha scritto:
AndreaFWN: Esiste un unico errore innato, ed è quello di credere che noi viviamo per essere felici.
Non so se sia innato o meno ma sono daccordissima su questa cosa.

Sono contento che sia così; quanta vita sprecata vivendo di questa illusione!

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Messaggio Da Cosworth117 Gio 26 Apr 2012 - 16:27

Ciao AndreaFWN. C'è uno spazio apposito per le presentazioni, se vuoi. ok

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Messaggio Da AndreaFWN Gio 26 Apr 2012 - 17:17

Cosworth117 ha scritto:Ciao AndreaFWN. C'è uno spazio apposito per le presentazioni, se vuoi. Morte e felicità 605765



Grazie dell'informazione; a tempo debito provvederò subito!

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Messaggio Da Paolo Gio 26 Apr 2012 - 17:23

AndreaFWN ha scritto:Esiste un unico errore innato, ed è quello di credere che noi viviamo per essere felici.

Ciao Andrea e benvenuto. ok

Noi viviamo ricercando la felicità! Che poi uno la possa raggiungere o no è tutta un' altra cosa.

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Messaggio Da AndreaFWN Gio 26 Apr 2012 - 18:25

Paolo ha scritto:
AndreaFWN ha scritto:Esiste un unico errore innato, ed è quello di credere che noi viviamo per essere felici.

Ciao Andrea e benvenuto. Morte e felicità 605765

Noi viviamo ricercando la felicità! Che poi uno la possa raggiungere o no è tutta un' altra cosa.

Ciao Paolo e grazie della cordialità!

Mi vien proprio difficile riuscire a ragionare in questi termini; direi che bisogna partire dal presupposto che il concetto di "felicità" è puramente soggettivo e quindi riuscire a dargli una precisa connotazione risulta un'impresa vana. Sta di fatto che, dal momento in cui ho imparato a convivere con la forma più spietata di nichilismo senza entrare in uno stato di nevrosi, tutto mi è crollatto addosso; quando ho incominciato a staccarmi da una morale che mi è stata imposta dalla società fin dalla nascita e per mia fortuna son riuscito a scoprire che riescono a fartela concepire come innata, ma non lo è per niente, tutti quei valori impreganti di fassullo perbenismo e umanità che serpeggiano nella cultura occidentale, che è stata inzozzata da troppo tempo dalla tradizone ebraico-cristiana, sono venuto a mancare e la perdità di un fine e di un senso mi hanno portato a pensare che la vita è un futile agitarsi per niente. Viviamo perchè costretti e il conceto di felicità è solamente un mero prodotto dell'uomo che non si accontenta della durezza dell'esistenza. Niente c'è per renderci fecili e noi non dovremmo sprecare tutte le nostre energie in questo. Ora non è molto pertinente, ma quando penso a queste cose mi viene in mente un proverbio tedesco che fa così: Einmal ist Keinmal. Mi scuso già per i vari errori di sintassi e di senso che saranno presenti nelle mie frasi ma esco da ore intense di studio e ho cercato di scrivere nel modo più spontaneo possibile. Comunque vi auguro un buon pomeriggio!

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Messaggio Da Paolo Gio 26 Apr 2012 - 19:14

Andrea in effetti mettici qualche punto nelle frasi se no ti si incrociano gli occhi a leggerle! mgreen

Ma a parte la battuta, ritengo che tu abbia esposto in modo molto serio il tuo punto di vista. Devi però tenere conto che se si parla di felicità è ovvio che sia una questione del tutto personale. Ma è personale il modo con cui tutti noi cerchiamo di ottenerla, ma il concetto è uguale per tutti.

Sono due, e solo due, le spinte che ci condizionano a fare tutto. La prima è quella di evitare il dolore. La seconda, che segue a ruota, è la ricerca della felicità. Non esiste una scelta che tu prenda che non sia dettata da queste due imprescindibili spinte. Se analizzi anche un masochista persegue il piacere anche se apparentemente sembra il contrario. E la somma dei piaceri del vivere che ti danno la felicità. Ma non confondere la felicità con l'euforia. Quella è un'emozione transitoria. La felicità la potremmo definire l'assenza di dolori morali e un equilibrio tra i propri desideri. Poi, come ti ho detto puoi anche averla parzialmente o quasi niente però questa è la vita.

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Messaggio Da silvio Gio 26 Apr 2012 - 21:47

Una volta alla radio ho sentito un prete che si chiedeva:

"perchè un uomo cerca la felicità ?"

Si rispondeva:

"è la nostalgia del paradiso perduto."

In realtà il concetto di felicità non è così facile da spiegare, che cosa significa essere felici, ognuno ha il suo approccio.
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Messaggio Da Steerpike Gio 26 Apr 2012 - 21:56

AndreaFWN ha scritto:Viviamo perchè costretti e il conceto di felicità è solamente un mero prodotto dell'uomo che non si accontenta della durezza dell'esistenza. Niente c'è per renderci fecili e noi non dovremmo sprecare tutte le nostre energie in questo.
Non siamo proprio costretti a vivere, e la felicità esiste. Forse ti riferivi alla felicità cronica. In ogni modo, il cervello umano è stutturato in maniera tale da produrre gratificazione al raggiungimento di un obiettivo, qualunque esso sia; di solito non si sprecano energie "per la felicità", ma per obiettivi che una volta raggiunti rendono di riflesso felici.
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Messaggio Da Akka Gio 26 Apr 2012 - 22:51

il pensiero di andreaflw mi pare simile a quello di emile cioran, e condivido con lui/loro l' idea della falsità della fellicità, essa in fin dei conti deriva dai nostri desideri, i quali non dipendono da noi stessi ma dalla nostra storicità(famiglia,ambiente,società), siamo pieni di condizionamenti esterni e di turbe mentali assurde( tutti chi più chi meno), e il raggiungimento di sta beata felicità pare più un autolavaggio del cervello che una condizione reale e qualitativamente diversa dall' infelicità...

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Messaggio Da Paolo Ven 27 Apr 2012 - 8:22

Akka ha scritto:il pensiero di andreaflw mi pare simile a quello di emile cioran, e condivido con lui/loro l' idea della falsità della fellicità, essa in fin dei conti deriva dai nostri desideri, i quali non dipendono da noi stessi ma dalla nostra storicità(famiglia,ambiente,società), siamo pieni di condizionamenti esterni e di turbe mentali assurde( tutti chi più chi meno), e il raggiungimento di sta beata felicità pare più un autolavaggio del cervello che una condizione reale e qualitativamente diversa dall' infelicità...

E' un errore considerare la felicità come un punto di arrivo o un qualcosa da conquistare. Nella realtà la felicità non esiste è solo un concetto astratto del "vivere bene" o dello "star bene" morale, e come tutti i concetti, non lo si può mai identificare con un qualcosa di ben preciso o definito. La felicità è uno status cui noi tutti naturalmente tendiamo. E' come dire la salute. Ognuno di noi cerca di averla e di preservarla il più possibile. Poi dire in assoluto cosa sia è difficile, pur essendo un concetto molto più concreto e pratico da intuire.

Ma se non noi avessimo questa tendenza vivremmo nella più profonda depressione. Ricercare una propria felicità, intesa come stato di benessere interiore, è del tutto necessario al nostro vivere. Se analizziamo tutti i nostri comportamenti e le nostre scelte, si evince che essi sono fondati prima sulla necessità di evitare il dolore che ci comporterebbe una scelta sbagliata, e poi la convinzione che quello che stiamo facendo sia la cosa migliore per noi. E questo anche nelle piccole cose. Mangi per non sentire i morsi della fame. Poi però cerchi di mangiare cibi di tuo gusto per avere una sensazione gradevole. Anche le scelte che apparentemente possono sembrare del tutto altruiste sono pur sempre finalizzate all'ottenimento della proprio piacere. Se non aiuti gli altri, e sei una persona sensibile, provi dolore. Se invece li aiuti ti da piacere. E così un po' per tutto. Nulla sfugge a questa logica. Nemmeno la più bieca delle perversioni. Chi le compie, almeno in in quel momento, lo fa per appagare un suo desiderio, una ricerca perversa del piacere.

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Messaggio Da Rasputin Ven 27 Apr 2012 - 10:22

Paolo ha scritto:

E' un errore considerare la felicità come un punto di arrivo o un qualcosa da conquistare.

Quoto. (Leggi la mia firma wink.. )

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Messaggio Da teto Ven 27 Apr 2012 - 10:46

Io non capisco una cosa, perché quando muore qualcuno di caro i credenti si mettono a piangere? Non c'é la vita eterna dopo la morte? Non si ricongiungeranno per l'eternità dopo la morte, perché si piange?
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Messaggio Da AteoCorporation Ven 27 Apr 2012 - 11:55

teto ha scritto:Io non capisco una cosa, perché quando muore qualcuno di caro i credenti si mettono a piangere? Non c'é la vita eterna dopo la morte? Non si ricongiungeranno per l'eternità dopo la morte, perché si piange?

Anche se credono di ritrovare i loro cari dopo la morte rimane pur sempre il dolore della separazione, del resto anche quando una persona cara va via e si trasferisce per motivi di lavoro o altro c'è molta tristezza e molti piangono, anche se magari sanno che un giorno si incontreranno ancora.

Inoltre la morte è quasi sempre un evento inaspettato, soprattutto se a morire è una persona giovane, per cui la sofferenza è data anche per questa divisione inaspettata, per questi motivi non credo che un credente sia incoerente se piange la morte di un proprio caro.

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Messaggio Da teto Ven 27 Apr 2012 - 12:13

Si ma qui parliamo di ETERNITÀ, basta solo aspettare 80 anni al massimo e poi rivedi i tuoi cari per un tempo infinito, cosa sono 80 anni in confronto all'infinito?
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Messaggio Da AteoCorporation Ven 27 Apr 2012 - 12:19

teto ha scritto:cosa sono 80 anni in confronto all'infinito?

Sono anni di sofferenza, anche se c'è la certezza di incontrare i propri cari la sofferenza rimane comunque, credere nella vita eterna non elimina cose come la sensibilità e l'empatia, per cui si soffre sempre.

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Messaggio Da teto Ven 27 Apr 2012 - 12:26

AteoCorporation ha scritto:
teto ha scritto:cosa sono 80 anni in confronto all'infinito?

Sono anni di sofferenza, anche se c'è la certezza di incontrare i propri cari la sofferenza rimane comunque, credere nella vita eterna non elimina cose come la sensibilità e l'empatia, per cui si soffre sempre.

Secondo me no, se fossi credente non mi dispererei della morte di uno a me caro
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Messaggio Da luna Ven 27 Apr 2012 - 15:05

Si piange per se stessi, non per il morto, perchè soffriremo la sua mancanza o per il senso di colpa represso e latente di rimorsi che ci portiamo dentro e che ci fa addossare inconsciamente la colpa della morte del nostro caro.
Nei rapporti sereni e piani di solito la morte viene accettata con compostezza e serenità e certo con rammarico, ma non con impossibilità alla rassegnazione, in questi casi c'è sempre un inconscio rapporto non risolto alla base.

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Messaggio Da Steerpike Ven 27 Apr 2012 - 16:27

teto ha scritto:
AteoCorporation ha scritto:
teto ha scritto:cosa sono 80 anni in confronto all'infinito?

Sono anni di sofferenza, anche se c'è la certezza di incontrare i propri cari la sofferenza rimane comunque, credere nella vita eterna non elimina cose come la sensibilità e l'empatia, per cui si soffre sempre.

Secondo me no, se fossi credente non mi dispererei della morte di uno a me caro
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