Rivoluzioni Nonviolente e Rivoluzioni Violente
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Rivoluzioni Nonviolente e Rivoluzioni Violente
Ma la nonviolenza, alla fine, è efficace? Serve veramente a cambiare la storia, a migliorare le condizioni della convivenza umana, oppure è semplicemente l’utopia di un manipolo di idealisti che non hanno nessun senso della realtà?
La domanda è seria e ritorna fra l’altro nella riflessione dei grandi testimoni della nonviolenza prima ancora che in quella dei loro detrattori. Basterebbe rileggere le pagine di uomini e donne come Gandhi, Simone Weil, Lanza del Vasto, Bonhoeffer, i ragazzi della Rosa Bianca, Capitini, Jean e Hildegard Goss Mayr, Pontara, Bobbio, solo per citarne alcuni, per rendersi conto che chi prende sul serio la questione della nonviolenza si pone sempre il problema della sua efficacia storica, della sua capacità di trasformare i processi politici e la struttura delle relazioni sociali.
È questa domanda che ha fatto da sfondo all’intervento di Antonino Drago a Trento, il 9 novembre scorso, in un incontro promosso dal Forum Trentino per la Pace e i Diritti Umani e il Centro per la Formazione alla Solidarietà Internazionale durante il quale Drago ha tracciato un quadro sulle rivoluzioni nonviolente degli ultimi decenni. Già professore di storia della fisica alla facoltà Federico II di Napoli e attualmente docente di Strategie della difesa popolare nonviolenta all’università di Pisa, Drago è stato il primo direttore del Comitato di consulenza per la difesa civile non armata e non violenta della Presidenza del consiglio dei ministri e ha proposto una riflessione a partire da due recentissimi studi sui risultati delle rivoluzioni dell’ultimo secolo, ben 323 dal 1900, 67 delle quali nei trent’anni fra il 1972 e il 2002: un numero altissimo, se si tiene conto del fatto che nel mondo ci sono meno di 200 Paesi.
Analizzare queste rivoluzioni riserva qualche inaspettata sorpresa e ci fornisce chiavi di lettura preziosissime per comprendere i processi politici attuali, valutando le metodologie di azione e l’efficacia della prassi nonviolenta.
Tale approccio richiede però preliminarmente lo sforzo di individuare miti e luoghi comuni che possono deformare la nostra lettura dei fatti: “Si può partire, ha suggerito Drago, ponendosi una semplice domanda: cosa è successo il 9 novembre 1989? Quasi tutti rispondono: è caduto il muro di Berlino. Questa risposta richiama un mito, ma non chiarisce in realtà la questione di fondo: chi è il soggetto che ha fatto cadere il muro? Chi è l’attore di un’azione che ha segnato la fine di un’epoca? E quali sono le premesse e le conseguenze immediate di quel processo?”. Senza questa analisi sulle nostre precomprensioni, insomma, c’è il rischio di non capire il senso degli eventi e di non avere gli strumenti per comprendere soggetti, metodi e risultati di processi che hanno cambiato la storia del mondo.
Non basta dire che il 1989 è la fine del modello di spartizione del mondo uscita dagli accordi di Yalta: occorre chiedersi chi è il soggetto del cambiamento e come lo ha attuato perché questo costringe a riflettere sul concetto stesso di rivoluzione e a rivederne la definizione classica, che richiama “lo sconquasso della comunità sociale e politica attuato attraverso l’uso della violenza. Alla base di questa concezione sta l’idea di Hegel che la violenza sia la levatrice della storia, una visione esaltata nella cultura e nella filosofia”. Una tale prospettiva, secondo la quale la rivoluzione non può che essere violenta, è profondamente radicata, ma oggi appare insufficiente per comprendere la realtà.
Anzi, negli ultimi decenni è divenuto via via più chiaro che i processi rivoluzionari che utilizzano la nonviolenza sono in generale molto più efficaci di quelli che utilizzano la violenza. Dagli studi sull’ultimo secolo emerge infatti che mentre le rivoluzioni violente sono efficaci in un caso su quattro se si valuta l’obiettivo di costruire una situazione postrivoluzionaria di maggiore democrazia, quelle nonviolente lo sono nella metà dei casi. Limitandosi al periodo fra il 1972 e il 2002, su 67 rivoluzioni individuate, 20 rivoluzioni sono state violente contro le 47 nonviolente. E il dato è ancora più interessante se si tiene conto del fatto che fra le rivoluzioni nonviolente solo una non giunge a liberare il Paese dal potere oppressivo, mentre la percentuale di successo delle rivoluzioni violente appare molto più basso, 4 su 20.
Le ragioni di questa maggiore efficacia delle rivoluzioni nonviolente sono diversificate, e vanno cercate soprattutto nelle caratteristiche specifiche delle rivoluzioni nonviolente, che potremmo riassumere schematicamente in questi fattori: consapevolezza che la nonviolenza non è passività, ma è un processo attivo di trasformazione della realtà senza ricorrere allo strumento della violenza; coinvolgimento di tutte le classi sociali e di tutte le età (non di rado nelle rivoluzioni nonviolente assumono un ruolo centrale le donne, le famiglie con i bambini, gli anziani); il coinvolgimento non tanto di parti contrapposte ma di ampie maggioranze che si oppongono a regimi non democratici, al punto che si può dire che il soggetto principale è il popolo; la scelta di mettere in atto reti di persone che propongono strategie di intervento condivise contro tutte le forme di violenza, non solo quella fisica, ma anche quella culturale o quella strutturale. Tutto ciò produce un processo rivoluzionario nella misura in cui gli obiettivi sono radicali e mirano a una trasformazione profonda e non a una semplice riforma del contesto in cui si vive.
Da un punto di vista metodologico questo successo deriva dal fatto che le rivoluzioni nonviolente riescono a frantumare la forza della repressione. “E questo, spiega Drago, perché la nonviolenza ha il potere di toccare la coscienza di ogni persona, disarmando da dentro l’aggressore. Per fare un esempio, nelle rivoluzioni arabe gli atteggiamenti nonviolenti hanno avuto come effetto quello di spaccare le forze di polizia. E questa è la ragione per la quale il presidente iraniano Achmadinejad ha deciso di avere tre corpi repressivi autonomi, per resistere più efficacemente ai processi rivoluzionari nonviolenti”.
In tali processi le piazze hanno avuto un ruolo fondamentale. Esse sono infatti il simbolo di una delle caratteristiche essenziali della rivoluzione nonviolenta. “Il ruolo delle piazze deve essere analizzato. Molte volte infatti si dice che il potere dittatoriale si fonda sull’ubbidienza dei cittadini che non si ribellano. Questo è vero, ma presuppone che ci sia una relazione fra cittadini e chi detiene il potere. Ma negli ultimi decenni c’è anche una gran parte della popolazione che è semplicemente esclusa, relegata in una posizione di marginalità. Per queste persone, spesso in gran parte giovani, disubbidire è impossibile, perché semplicemente sono ai margini della vita sociale e politica. E quindi l’unico sistema che hanno è quello di occupare la piazza, che è il grande spazio pubblico. Io non ho relazioni, non ho un lavoro, non conto sul mercato, e allora occupo una piazza centrale e lì manifesto il mio dissenso.
E questo è possibile anche perché questi esclusi non sono semplicemente ricattabili. E la cosa interessante è che ormai nell’occupazione delle piazze che sostiene le rivoluzioni nonviolente dopo il 1989 ci sono i bambini (ha fatto il giro del mondo la foto del bambino che dorme sui cingoli del carro armato egiziano) e, come accennato, moltissime donne. E le donne, fra le più escluse, hanno un ruolo sempre più importante nella lotta nonviolenta, usando strumenti veramente disarmanti, come il bacio. Avvenne a Praga nel 1989, ed è avvenuto a piazza Tahir dove anche le donne anziane hanno baciato i soldati come fa una madre, quasi volessero dire: anche tu sei mio figlio”.
Ma c’è un’ulteriore motivo per cui il fenomeno delle rivoluzioni nonviolente meriterebbe una maggiore attenzione, ed è il fatto che mette in luce l’insufficienza e i limiti delle ideologie tradizionali. Le nuove rivoluzioni hanno messo in discussione tanto il modello capitalista quanto quello marxista, fondati su una visione di rapporti di forza che prevedono l’uso della violenza per la soluzione dei conflitti. Al punto che, sottolinea Drago nel suo libro (Le rivoluzioni violente dell’ultimo secolo. I fatti e le interpretazioni, Nuova Cultura 2010), attualmente gli Stati Uniti hanno preso seriamente in considerazione tali processi e metodi di cambiamento, e allo stesso modo l’analisi marxista ha dovuto prendere atto che la violenza di classe non è l’unico strumento di trasformazione della storia. Purtroppo la portata di questo cambiamento, al cui centro sta la partecipazione popolare, rimane ancora sottovalutata. E si finisce per ignorare casi come quelli del Nepal nel quale, nel 2006, una grande rivoluzione nonviolenta vide l’inedita alleanza fra i nonviolenti e i maoisti. Un’alleanza non facile, perché costrinse la guerriglia ad abbandonare le armi e ad accettare le mediazioni politiche per la democratizzazione del Paese.
Peccato che di tutto questo si parli così poco. Eppure siamo di fronte a uno dei cambiamenti più profondi che la storia abbia mai conosciuto, che ci costringerà a rivedere anche l’impianto delle dottrine politiche. E che è un segnale di speranza sulla via, non così utopica, del superamento della violenza.
Alberto Conci
loonar- ----------
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Re: Rivoluzioni Nonviolente e Rivoluzioni Violente
tendenzialmente sono per la non violenza, ma a volte, in alcune circostanze, la violenza è necessaria per farsi rispettare, sempre nei limiti ovviamente.
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Lei mi sta minacciando a me?
lupetta- -------------
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Re: Rivoluzioni Nonviolente e Rivoluzioni Violente
Non ho voglia di leggere tutto. Magari poi. Però per quanto riguarda Vaticano e attuale classe politica sono per la violenza. Extreme rules.
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Chuang-Tzu
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Re: Rivoluzioni Nonviolente e Rivoluzioni Violente
cos'è la non violenza, che scrivi in quella frase?lupetta ha scritto:tendenzialmente sono per la non violenza, ma a volte, in alcune circostanze, la violenza è necessaria per farsi rispettare, sempre nei limiti ovviamente.
mix- -------------
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Re: Rivoluzioni Nonviolente e Rivoluzioni Violente
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Steerpike- -----------
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